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La scuola da ricostruire

Se l’istruzione pubblica è in questo stato non è solo per la crisi. E se deve essere rifatta non è solo nelle mura. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta

12/06/2014
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la Repubblica

Adriano Prosperi

CI SONO tante emergenze nel nostro paese. Ma il rapporto del Censis sugli edifici scolastici statali e le lettere dei sindaci al premier Renzi ne segnalano una gigantesca. Edifici vetusti, cadenti, pericolosi per l’amianto o perché il tetto e le mura non ce la fanno più. Lo chiamiamo patrimonio edilizio, ma più che un patrimonio è un debito: è vecchio, arretrato, è stato lasciato indietro mentre l’edilizia privata conosceva il boom. È tempo di
cambiare marcia.
Ma se la scuola statale è in questo stato non è solo per la crisi finanziaria e il patto di stabilità. E se deve essere ricostruita non è solo nelle mura e nei soffitti, negli impianti e nella eliminazione di rischi per la salute. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta da tempo: non solo in Italia.
Quella che ci ha portato qui è una strada lunga: e si è aperta davanti alle classi dirigenti e all’opinione pubblica quando ha vinto la convinzione che la scuola dovesse essere assoggettata alle leggi del mercato capitalistico. Leggi nuove: all’idea della scuola pubblica come canale formativo del cittadino e luogo di accesso ai più alti gradi del sapere sono subentrate le leggi della concorrenza per attirare i clienti-studenti e dell’efficienza che obbligava a sfornare un “capitale umano”. Inutile spreco è apparso l’obbligo dell’insegnante di formare l’allievo come personalità matura e cittadino cosciente dei suoi diritti e doveri. Occorreva addestrarlo per essere immesso sul mercato. Questa la dottrina entrata in vigore nel mondo occidentale coi governi di Margaret Thatcher e con Ronald Reagan negli Usa. Dunque, scuole pubbliche e private entravano in concorrenza. La svolta fu segnata negli Usa dal rapporto 1983 della commissione insediata da Reagan che denunziava lo stato fallimentare del sistema scolastico: la signora Thatcher ne seguì l’esempio con l’Education Reform Act del 1988.
Non parliamo delle conseguenze nel mondo anglosassone: importa invece osservare quelle che si ebbero in Italia. Il nostro paese aveva all’epoca una scuola pubblica e una università tutt’altro che disprezzabili, anche se messe a dura prova nelle loro strutture da un aumento della popolazione scolastica — dovuto al progresso economico e sociale del paese che viveva un primo avvio di correzione della ripartizione della ricchezza. Anche l’Italia subì gli effetti della nuova dottrina. Qui l’unica forma di concorrenza possibile era tra scuola pubblica e scuole confessionali: in quella direzione fu accelerato il flusso dei finanziamenti e si moltiplicarono le forme di servilismo verso le istituzioni educative di marca confessionale. La scuola pubblica dovette aprire le sue porte a insegnanti di religione nominati dai vescovi, in barba alla Costituzione. Da allora lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università non ha conosciuto interruzione. Si poteva sperare qualcosa dalla costruzione europea. Ma qui ci siamo trovati davanti alla vittoria di un’idea di modernizzazione che recepiva in pieno il dogma liberista. Intanto, da noi si è venuta scatenando nella comunicazione pubblica un’offensiva tesa a convincere che è inutile perdere tempo a scuola. Siamo precipitati all’ultimo posto in Europa come percentuale di laureati e continuiamo a discendere nelle statistiche sul grado di istruzione della popolazione, la quantità di libri letti, la conoscenza e il rispetto del nostro patrimonio culturale.
È una corsa all’indietro che talvolta si veste di nuovi panni e si maschera da volontà riformatrice. Di recente la ministra Giannini ha promesso di abolire i concorsi universitari: non riformarli, non ricondurli alla funzione di selezionare realmente i migliori, non liberarli dalle pastoie di leggi scritte e non scritte, di bardature burocratiche soffocanti: no, cancellarli. Eppure la Costituzione, recependo un principio fondamentale della cultura illuministica, impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso: e ricorda che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Con l’abolizione dei concorsi il carattere pubblico, statale, di scuola e università si intenderebbe forse anch’esso cancellato? E quali interessi privati si sostituirebbero così all’interesse pubblico, che è o dovrebbe essere quello primario di tutto l’ordinamento scolastico?


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