La scuola che boccia il merito
di GianAntonio Stella
«N on è mica un talent!», sbuffò mesi fa il leader della Uil scuola Pino Turi, contestando la scelta ministeriale di introdurre anche in Italia un premio nazionale per i migliori insegnanti associato al Global Teacher Prize, il cosiddetto «Nobel dei docenti». E spiegò a Tuttoscuola , allargando il discorso a un po’ tutto il sistema: «Va bene premiare il merito, ma troviamo dei criteri in sede contrattuale perché i migliori magari non sono 5 ma l’80% degli insegnanti». Testuale.
Ora, nessuno si sognerebbe di sostenere, neppure dentro il sindacato, che possano indistintamente essere «i migliori» l’80% dei calciatori o dei pianisti, dei fabbri o dei pizzaioli. In tutti i campi della vita ci sono i più bravi e i meno bravi. Che devono essere tutelati, si capisce: non a tutti è concesso di diventare Messi o Pollini. L’idea che la scuola faccia eccezione a ogni gerarchia di merito, invece, pare essere saldamente imbullonata. Lo dimostravano Gianna Fregonara e Valentina Santarpia ricordando ieri sul Corriere che «nel Lazio sono stati premiati il 47% dei prof, cioè uno su due», che «una scuola su 5 ha scelto di dividere i fondi in parti uguali» e che a Palermo nella metà delle scuole il premio «è stato assegnato sulla base dell’autocertificazione». Cioè un modulo dove l’insegnante deve barrare una sessantina di quiz tipo dichiarando ad esempio d’avere «spirito d’iniziativa, sviluppo del lavoro e soluzione rapida del problema». Immaginatevi le risposte…
C he senso hanno numeri così? Forse il presidente della Associazione TreeLLLe Attilio Oliva, che in un articolo sul nostro giornale del giugno scorso sosteneva che il bonus non avrebbe dovuto essere attribuito «a più del 10% dei docenti di ciascun istituto» perché un eccessivo allargamento avrebbe vanificato gli obiettivi, forzava un po’. Dopo decenni di «sei politico» non è facile passare a selezioni meno egualitariste.
Di più: è probabile che tutta l’impostazione della Buona scuola dove parla dei premi destinati «a valorizzare il merito» fosse fatta male. Sono state troppe, infatti, le proteste. Anche da parte di docenti dichiaratamente disposti a lasciarsi giudicare «con criteri giusti». Ma questo è il punto: quali sarebbero questi «criteri giusti» in un Paese dove il Tar annulla un concorso all’Asl di Pavia (vinto da una candidata preparatissima) perché le domande erano «di eccessiva complessità»? Dove ogni tipo di «gerarchizzazione degli insegnanti» viene contestata rissosamente dai tempi della riforma stroncata, giusta o sbagliata che fosse, di Luigi Berlinguer, fatto a pezzi non solo dai sindacati sinistrorsi ma dalla destra finiana e berlusconiana decisa a cavalcare la rivolta? Dove tra i quiz per assumere funzionari dei Beni Culturali si chiedeva tempo fa se i Bronzi di Riace erano «A: In marmo; B: In legno; C: In bronzo»? È vero: i nostri maestri e professori sono pagati poco rispetto non solo ai colleghi del Lussemburgo (79.920 dollari di partenza), della Germania o della Danimarca ma anche rispetto agli spagnoli o ai portoghesi. E dopo anni di blocco è indispensabile, come del resto è stato riconosciuto nell’accordo col governo del 30 novembre, un adeguamento che ripristini un po’ di decoro anche economico per quegli insegnanti, spesso bravissimi, che vedono la loro professione, come rivelò un’indagine tre mesi fa, mortificata e sottovalutata.
Detto questo resta la domanda: se non andavano bene i criteri di valutazione della Buona scuola, diamolo pure per scontato, ne esistono altri che concretamente possano essere accettati da chi per mestiere valuta gli altri cioè gli alunni? O siamo ancora fermi al rifiuto di ogni esame, ogni giudizio, ogni selezione? Sono passati tredici anni da quando i sindacati e l’Aran, l’agenzia che rappresenta il governo nei negoziati, si impegnarono a costituire una commissione col ministero dell’Istruzione per definire quali potessero essere quei criteri «giusti« di valutazione. Risultati? Boh… Basti dire che nella «sintesi» (si fa per dire) degli obiettivi su 1994 parole non era mai usata la parola «merito». Mai.
E rieccoci qui. A ripartire col solito tormentone. «La valutazione di insegnanti e scuole è un problema di difficile soluzione e sindacalmente esplosivo», scrive nel libro «Status quo» Roberto Perotti, reduce dal deludente sforzo di fare dei tagli a Palazzo Chigi, «Ma pensare di imperniare la scuola sul merito senza un qualche meccanismo di valutazione e di premialità è pura illusione». Negli altri Paesi, dove hanno chiaro che il primo obiettivo non è l’erogazione di cattedre e stipendi ma la preparazione dei cittadini di domani, la fanno sì, la scrematura fra i migliori e i peggiori. Perché da noi, sia pure con tutte le garanzie contro eventuali soprusi, non è possibile? Che senso ha puntare a premi concordati e distribuiti a pioggia?
Il guaio di fondo è sempre lo stesso: per imporre una svolta su un tema come il merito, essenziale per la ripresa del nostro Paese, occorre esser credibili. Ma quale credibilità hanno i nostri massimi vertici pubblici se da sempre si sono spartiti i premi a pioggia grazie alla «auto-valutazione»? Quale credibilità se ancora oggi, nel 2017, non sappiamo («dati in corso di elaborazione») come sono stati distribuite nel 2015 le prebende «di risultato» ai novantotto dirigenti di prima fascia e ai 203 di seconda fascia di Palazzo Chigi?