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La ripresa negli atenei/La ricerca, i fondi e il gap da evitare

Da qualche settimana è ripreso il dibattito sul tema della ricerca e dei meccanismi di finanziamento del sistema universitario.

18/03/2021
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Il Messaggero

Luca Bianchi e Gaetano Vecchione

Da qualche settimana è ripreso il dibattito sul tema della ricerca e dei meccanismi di finanziamento del sistema universitario. Soprattutto alla luce delle nuove opportunità di investimento nella ricerca derivanti dal piano Next generation Ue.
Eccellenza, qualità, “i migliori”, sono solo alcune delle parole che ritornano costantemente nella narrazione del tema, trascurando tuttavia alcuni aspetti a nostro avviso di cruciale importanza. Ad esempio, su lavoce.info è stato recentemente pubblicato un contributo a cura di Tito Boeri e Roberto Perotti. Gli economisti sollevano questioni rilevanti dandoci l’opportunità di discutere sul merito degli effetti prodotti dai meccanismi di finanziamento del sistema universitario italiano. 

Iniziamo subito col dire che non possiamo che concordare sulla conclusione implicita: il Pnrr deve essere l’occasione di rilancio per l’Università del nostro Paese. E in particolare sul fatto che i meccanismi di reclutamento degli atenei devono essere autenticamente orientati al merito contro ogni potentato locale. E quelle relative alla necessità di premiare chi fa la ricerca migliore.

Ci sono tuttavia due gravi rischi che potrebbero derivare da un approccio di policy che trascura gli effetti di contesto territoriale e il ruolo della ricerca pubblica come moltiplicatore di sviluppo socio-economico. Il primo è il dato di fatto, affermato da Boeri e Perotti, che la ricerca ad alto livello non possa essere distribuita uniformemente tra atenei e dipartimenti. Non si tratta di un dato di fatto ma di una scelta politica.

Scegliere un sistema di finanziamento che orienta maggiori risorse nei “luoghi dell’eccellenza”, già più attrattivi per capitale umano, capitali finanziari, attività di ricerca e sviluppo non è l’unica via possibile. 
Un recente libro curato dagli economisti Dani Rodrik (Harvard) e Olivier Blanchard (Mit) dal titolo “Combating Inequality”, basandosi su un’evidenza empirica robusta, suggerisce soluzioni di policy opposte. Con una motivazione di fondo: i processi di agglomerazione amplificano le disuguaglianze a discapito della coesione sociale e territoriale, obiettivo che, per mandato europeo, siamo chiamati a perseguire con le nuove risorse dell’Europa nella ripartenza post-Covid. 

Il secondo punto riguarda l’annoso problema delle risorse che finanziano il sistema universitario italiano. Innanzitutto, esse non vengono distribuite “a pioggia” ma in base ad un complicato sistema di calcolo che assegna agli atenei, approssimativamente, risorse pari al 67% per la quota storica, il 30% per una quota premiale (prima della riforma Gelmini questa percentuale non esisteva) e il 3% a scopi perequativi. 
Nonostante gli sforzi degli ultimi anni, è necessario far notare come il fondo di finanziamento per l’Università sia diminuito dal 2008 al 2020 di circa il 5% (a prezzi costanti, dati Mur-Anvur). È inutile dire che in altri Paesi la tendenza sia opposta e che, ad esempio, la spesa pubblica per studente (dati Ocse 2020) ammonta in Italia a circa 12.000 dollari, rispetto ai 17.000 della Francia, ai 18.000 della Germania e ai 28.000 del Regno Unito. Per questo, e senza entrare nel merito, anche il raffronto con il sistema inglese proposto dagli autori è francamente solo un esercizio di stile. 

Qui non si vuole affermare che non vada premiata la ricerca di qualità e i gruppi più competitivi ma che, in un sistema a risorse decrescenti, l’introduzione di una “cieca premialità” vada di fatto a spostare risorse da quelli che vivono nelle “periferie” economiche del Paese a quelli che vivono nel “centro”. Con l’ulteriore distorsione che i più abbienti delle zone periferiche riescono comunque a migrare verso atenei di regioni e città più ricche creando così ulteriore disparità sociale e limitando ancora di più le opportunità di crescita dei territori rimasti indietro.
Secondo una recente elaborazione della Svimez, su dati 2018 del Ministero dell’Università e Ricerca, circa un ragazzo su quattro del Sud si iscrive in una Università del Centro-Nord; si tratta prevalentemente di giovani provenienti dalle famiglie più istruite e benestanti. 

Nel Paese con i tassi di partecipazione universitaria tra i più bassi d’Europa, l’unica strada di policy in prospettiva Pnrr è quella di un sostanziale rafforzamento del sistema universitario nel suo complesso. 
La ricerca di qualità, soprattutto quella di base, va premiata e finanziata ma in maniera addizionale, questa è la vera sfida per rendere più competitivo il nostro sistema. E in questo ci troviamo in perfetto accordo con l’appello che i 14 eminenti scienziati italiani hanno rivolto a Mario Draghi lo scorso 21 febbraio. Sarebbe quindi assai più utile provare a discutere di come rendere più competitivo il sistema Italia nel suo complesso piuttosto che perorare la causa di una sola parte di esso.


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