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La riforma che serve

di Benedetto Vertecchi

21/11/2013
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[da Tuttoscuola, XXXVI, 507]

Quanto il marchese Casati propose al Parlamento piemontese la sua riforma della scuola, alla vigilia dell’Unità nazionale, cercò di prevedere tutti gli aspetti, anche quelli più minuti, del suo funzionamento. Il quadro normativo che il nuovo Stato italiano ereditò nel 1861 era dunque costituito da una legge monumentale (oltre 450 articoli), che, in effetti, dava forma al sistema scolastico. Nessuno  dubitava del fatto che le norme contenute nella legge fossero adempiute, per la semplice ragione che il piccolo sistema che Gabrio Casati aveva in mente era caratterizzato dalla stabilità di riferimenti. La legge supponeva che l’educazione dei figli non fosse sostanzialmente diversa da quella dei padri. Di conseguenza, l’intento degli ordinamenti era quello di assicurare, con la continuità fra le generazioni, l’omogeneità delle proposte culturali.

L’impostazione e i criteri seguiti dal marchese Casati nell’elaborazione della riforma non erano sostanzialmente diversi da quelli che si andavano affermando altrove, e in particolare in Francia: si trattava di una scuola di  impianto centralistico, volta ad ottenere profili culturali omogenei, caratterizzata da una elevata condivisione del ruolo che l’educazione avrebbe dovuto svolgere nella rigenerazione della società. In questo senso, anche se si trattava di una legge piemontese, la riforma di Casati anticipava un progetto di educazione che sarebbe stato poi ripreso dallo Stato nazionale. In breve, Casati aveva bene interpretato il senso che poteva aveva una legge generale sull’istruzione verso la metà dell’Ottocento. Ed era anche corretto il presupposto dell’attuabilità delle norme, assicurato proprio dalle dimensioni limitate del sistema scolastico. Le complicazioni hanno incominciato a manifestarsi quando l’accesso alla scuola di nuovi strati di popolazione che in precedenza ne erano esclusi pose in evidenza i limiti del disegno ottocentesco dell’ordinamento di Casati. Finché ai nuovi arrivati ci si limitava a fornire due o tre anni di istruzione di base i presupposti selettivi del sistema non erano posti in discussione. Al contrario, si poteva porre l’enfasi sul progresso della società italiana e sui vantaggi che i diversi settori della vita sociale (in particolare l’industria e i servizi) potevano trarre dalla modernizzazione conseguente al diffondersi dell’alfabetismo. In effetti, nei primi cinquant’anni di vita nazionale si ebbe una grande crescita della parte alfabetizzata della popolazione (si stima che bastasse una sola cifra per indicare la percentuale di quanti erano in grado di leggere e scrivere nel 1861). Ma alla crescita della popolazione alfabetizzata corrispondeva un cambiamento nella domanda sociale di istruzione. Da un lato, infatti, continuava a crescere la domanda di istruzione di base (assicurata dalla scuola elementare), dall’altro si manifestava una crescente esigenze di studi secondari.

E fu proprio questa esigenza a porre le premesse per una conflittualità sull’istruzione determinata dagli opposti interessi degli strati sociali che già fruivano di istruzione secondaria e di quelli  che aspiravano a fruirne. A questo disagio della scuola cercò di porre rimedio il ministro Gentile. Ma cercò di farlo con una crescita esponenziale della base normativa. Se si considera l’insieme delle norme che definiscono la riforma di Giovanni Gentile le centinaia di articoli della legge Casati sembrano un esempio di sobrietà normativa. In altre parole, Gentile si propose di intervenire su una riforma ottocentesca con un’altra riforma ottocentesca, senza voler considerare che i tempi erano cambiati e che le precedenti logiche malthusiane non avrebbero potuto reggere la pressione esercitata da una crescita della domanda sociale d’istruzione sempre più sollecitata dai cambiamenti in atto nelle diverse realtà sociali ed economiche. Questi limiti della riforma di Giovanni Gentile emersero fin dai primi anni della sua attuazione. Il presupposto delle poche scuole ma buone si rivelò impraticabile, e così quello della doppia canalizzazione, inferiore e superiore, degli studi secondari. A meno di una decina d’anni dal 1923, l’anno in cui la riforma prese avvio, il principio della doppia canalizzazione subì un duro colpo con la nascita del liceo scientifico, al quale non corrispondeva un segmento inferiore. Fu il ministro Giuseppe Bottai, nel 1939, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad avviare, con la Carta della Scuola, il sistema italiano d’istruzione sulla via di una trasformazione più adeguata alla cultura del Novecento. L’impianto scolastico della riforma Gentile ne fu sconvolto, anche se nominalmente quella che era stata salutata come la riforma fascistissima restò in vigore.

Quel che è certo è che dopo la guerra, per l’affetto combinato degli interventi di Bottai e di quelli di Carleton Washburne, Commissario alleato per l’Istruzione, l’ordinamento scolastico italiano appariva ben diverso da quello disegnato da Gentile. Ma restava la sua cultura ottocentesca, la presunzione che per via legislativa si potesse intervenire sull’azione quotidiana delle scuole, la resistenza a considerare i cambiamenti socioculturali non come accidenti da contrastare ma come aspetti strutturali dell’educazione, l’insensibilità all’esigenza di sostenere le decisioni, a livello di governo come a quello didattico, con riferimenti conoscitivi derivanti dalla ricerca. Il reale successo di Gentile non è stato la sua riforma, ma aver posto le premesse perché il dibattito educativo si impastoiasse in un confronto verboso capace di consumare le ipotesi di cambiamento senza che si potesse giungere ad una loro verifica sensata. Non è un caso che la sola modifica di ordinamento che nella seconda metà del Novecento ha segnato in profondità lo sviluppo del sistema scolastico italiano sia consistita in una semplificazione: mi riferisco, come è evidente, alla riforma della scuola media del 1962. Da allora non è mancata qualche buona legge (come la 517 del 1977 o la riorganizzazione della scuola elementare (1990), ma si è costatata una divaricazione sempre maggiore tra gli intenti perseguiti dalla normativa e la capacità di attuarli. Quella che oggi non si può non constatare è l’inconsistenza degli impianti interpretativi sui quali si fondano gli interventi sul sistema scolastico. Si indicano alle scuole funzioni e compiti che echeggiano temi sui quali altrove è in atto un confronto impegnativo (e ben sostenuto dalla ricerca), ma se ne riduce la densità del significato attraverso l’assimilazione al senso comune. In altre parole, fenomeni che dappertutto danno luogo a cambiamenti imponenti, e sui quali si cerca di riflettere utilizzando apparati conoscitivi capaci di alimentare con continuità il confronto tra quanti sono interessati allo sviluppo dell’educazione, sono ridotti in Italia ad esercitazioni retoriche al più sostenute da banalità di senso comune o da calchi assunti per assonanza da altri settori dell’intervento sociale.

Si continua a evocare sempre più stancamente l’esigenza di riformare il sistema educativo. Ma credo che parlare di riforma non produca più alcun coinvolgimento emotivo in chi dovrebbe fruirne (sarebbe meglio dire subirne) gli effetti. Nelle scuole, come nelle università, la parola si è desemantizzata. Non si associa a riforma l’idea di un progresso nell’educazione, ma solo quella di interventi pasticciati che – se attuati – possono ulteriormente complicare il compito educativo. Poiché quello del nostro sistema educativo è ormai uno scenario da dopoguerra, in cui l’esigenza preliminare è quella di ricostruire, vorrei sommessamente proporre che si abbandoni la logica delle riforme ottocentesche e ci si preoccupi di favorire il manifestarsi di una nuova cultura educativa, capace di interpretare e di proporre soluzioni. Occorrono decisioni semplici ed essenziali, che sono immediatamente comprese se si inseriscono in un quadro nel quale la conoscenza abbia scacciato le assonanze: per esempio, vogliamo prendere atto che nei paesi industrializzati la scuola è sempre più l’ambiente dell’esperienza educativa e per questo estende la sua azione a gran parte della giornata? Che senso ha continuare a parlare di orari scolastici come si fa da noi, se non quello di giustificare un moto retrogrado volto a ridurre la consistenza dell’offerta educativa?


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