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La proposta francese e la realtà italiana

di Alba Sasso

30/03/2018
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il manifesto

Sergio Neri, grande e illuminato pedagogista e padre, tra altri, della scuola dell’infanzia italiana diceva che «le grandi idee nascono se tu guardi molto in basso», riferendosi alla vicinanza con i piccoli, al rapporto immediato e diretto con bambine e bambini.

Qualche giorno, fa il presidente Macron ha annunciato, in una solenne occasione, di voler rendere obbligatoria la scuola, a partire dai tre anni, contro i sei attuali, una misura che dovrebbe diventare effettiva dal 2019, con l’intento «di fare della scuola un luogo di reale eguaglianza» per «un riconoscimento della scuola dell’infanzia che non va più considerata come una baby-sitter universale o come la semplice preparazione alla scuola elementare».

In realtà gran parte delle bambine e dei bambini francesi già frequenta le scuole dell’infanzia a partire dai tre anni, anche se non in modo obbligatorio. E allora? Come ha detto Blanquer, ministro dell’Istruzione francese, «la misura è soprattutto simbolica. E’ un modo per riconoscere l’importanza decisiva dei primi anni di vita per l’apprendimento».

Staremo a vedere. Ma è sempre opportuno ricordare che l’obbligo di istruzione, e questo vale per ogni paese, non può essere riferito solo a chi deve frequentare la scuola, ma dovrebbe impegnare e vincolare chi deve garantire le condizioni materiali (dagli edifici, alle strutture, al personale docente e non docente) per rendere questo diritto effettivo, concreto e non solo proclamato. I simboli parlano, forse alla storia, ma le condizioni materiali alla vita concreta e spesso difficile delle persone.

Per quanto riguarda l’Italia non possiamo dimenticare la riflessione, l’impegno, l’attenzione di importanti pedagogisti e soprattutto di maestre e maestri che, dal lontano 1968, anno della legge istitutiva, e anche prima, hanno costruito la qualità della scuola dell’infanzia, tra le migliori al mondo, per ribadirne il ruolo essenziale di decondizionamento sociale e di importante occasione di socializzazione proprio nell’età in cui si può ancora intervenire per superare le diseguaglianze di partenza tra bambine e bambini.

Una scuola riconosciuta nel mondo. E non è un aneddoto quello di esperti americani che venivano a studiare il funzionamento delle scuole dell’infanzia emiliane. Una scuola frequentata ormai dal 95% di bambine e bambini, dei quali però solo il 60% nelle scuole statali.

Se la scelta dei cittadini è chiara, è invece mancato un adeguato impegno dello Stato. Così in tanti ricorrono alla scuola privata, perché esclusi dalle graduatorie di quella pubblica.

E perdurano differenze troppo rilevanti tra le regioni.

Quest’anno la scuola dell’infanzia italiana compie 50 anni, ma i problemi continuano ad essere gli stessi sui quali in passato cadevano i governi (negli anni ’50 e ’60), a cominciare dal complesso rapporto pubblico-privato.

Forse persino acuiti dal decreto specifico sulla fascia scolastica 0/6, (nidi, scuola dell’infanzia) prevista dalla legge 107 (la famigerata ‘buona scuola’). Che prevede un sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni; scelta che mette in discussione l’idea che la scuola dell’infanzia rappresenti la prima parte del percorso degli istituti comprensivi: dalla scuola dell’infanzia appunto alla scuola media (secondaria di primo grado), con la conseguente previsione dell’obbligo per l’ultimo anno della scuola dell’infanzia.

Questa delega, prevista dalla legge Renzi, così come è potrebbe avere conseguenze rilevanti sul riordino, nei fatti, del sistema scolastico e formativo nel suo complesso.

Continuo perciò a pensare che la legge 107 debba essere abolita. E che anche su questo terreno delicato e importante della formazione dei piccoli bisognerebbe riaprire la discussione dalle fondamenta, sollecitando il confronto in sede politica, culturale e sindacale.

Confronto mai aperto veramente in nessun momento del percorso di una legge che, assai poco democraticamente, ha affidato la sua definizione ultima a decreti legislativi, che le commissioni parlamentari possono valutare, senza avere però alcun potere di modifica.


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