La pandemia? Una palestra per la scuola del futuro
Per Franco Lorenzoni, maestro e pedagogista, bisogna sfruttare l'emergenza per ripensare radicalmente spazi e tempi dell'istruzione. Per "risarcire" le ragazze e i ragazzi serve un'estate ricca di cultura, ma fuori dalle aule
Stefano Iucci
La pandemia ha reso evidente ciò che non funziona da tempo: la mancata riapertura totale delle scuole deriva dal fatto che in questi tredici mesi non si sono riusciti a costruire spazi adatti al distanziamento e dunque alla sicurezza. Ora bisogna fare un grande sforzo – di necessità virtù, come si dice –: utilizzare l’emergenza per provare a immaginare un modo diverso di fare scuola: a partire da luoghi, tempi e modalità didattica e spostamenti. Questo, in estrema sintesi, il pensiero di Franco Lorenzoni, il “maestro di Giove”, insegnante, pedagogista e da poche settimane chiamato come esperto dal ministro Bianchi nel comitato tecnico. “L’errore – dice a Collettiva – è pensare che bisogna intervenire solo per affrontare emergenze contingenti. Non è così: molte cose vanno ripensate per migliorare la qualità della vita di tutti i giorni. Prendiamo i trasporti, nodo cruciale di queste settimane: al di là della pandemia, perché milioni di persone si devono muovere ogni giorno ammassate? Insomma: proviamo a uscire da questa situazione con idee innovative e serie”.
Tra le cose di cui ti dovrai occupare come consulente nel comitato tecnico c’è il ripensamento di spazi e luoghi della didattica per il post-pandemia...
Sì e a questo proposito faccio un piccolo esempio che però secondo me è indicativo. Se intorno a tutte le scuole si istituissero isole pedonali, si potrebbe fare come la Di Donato di Roma: qui la strada adiacente è stata chiusa e i ragazzi fanno lezione con i banchi in strada. Dobbiamo arrivare a capire che la classe non è l’unico luogo educativo possibile: un approccio simile cambierebbe la didattica, metterebbe in moto ragionamenti innovativi tra gli insegnanti, aiuterebbe ad attivare l’attenzione e la concentrazione nei ragazzi, che sappiamo essere i due nodi che rendono così difficile oggi educare studenti iperstimolati da mille input esterni. Una sfida che la scuola deve accettare.
Insomma: ripensare la scuola sull’onda di ciò che è successo ma per arrivare a cambiamenti strutturali che accettino le sfide del nostro tempo. Servono scelte radicali...
È così. Cominciamo, ad esempio, a dire che dall’anno prossimo non dovranno esserci più di 20 alunni per classe. È il momento adatto per porre un vincolo simile.
Purtroppo però negli ultimi anni vincoli e tetti sono sempre stati esclusivamente di natura economica.
Bisogna cambiare: i vincoli devono essere rappresentati dalla qualità sociale. Il covid ce lo porteremo dietro temo a lungo, usiamolo dunque per affrontare anche questioni strutturali. Il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, è stato il fondatore dell’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, mentre Patrizio Bianchi ha gestito in maniera egregia il post-terremoto in Emilia-Romagna: si misurino entrambi con queste sfide.
Più di 40 anni fa hai fondato la Casa dei Cenci, un centro di sperimentazione educativa e di ricerca su temi come l’ecologia e l’inclusione.Tanto è stato detto sui limiti della didattica a distanza e sul fatto che aumenta le diseguaglianze. Che idea ti sei fatto in proposito?
Innanzitutto io la chiamerei didattica online, perché la distanza purtroppo certe volte si produce anche in classe. Detto questo, per me si tratta di una “non scuola”: la dad non sostituisce, e secondo me neanche integra, quella in presenza..
Il digitale è dunque tutto da buttare? Non è, come si diceva prima, anche questa una sfida da raccogliere per stare vicino alle nuove generazioni?
Certo, ma si tratta di un’altra cosa: il rapporto con il digitale, con il web come luogo di conoscenza e di esperienza, va sicuramente utilizzato. Il “nomadismo” dei ragazzi in rete in cerca di informazioni, suggestioni e conoscenze è un dato di realtà che non si può trascurare. Sono sempre convinto che – soprattutto nei primi anni, quando già i ragazzi passano ore e ore davanti agli schermi – la scuola debba lavorare su altro: il corpo, il contatto, la pittura, le esperienze diretta. Fatta questa premessa, è evidente che oggi i giovani che hanno stimoli e domande in rete possono trovare strumenti eccezionali. Senza però dimenticare che chi questi stimoli e passioni non le ha, nel web trova il peggio, il peggio di ciò che il mercato offre.
Non pensi che una delle sfide della scuola oggi sia proprio questa? Aiutare ad orientarsi in questa offerta così vasta e che altrimenti genera ulteriori discriminazioni sul piano sociale?
Sì e credo che questo oggi sia un po’ più possibile, perché nella pandemia gli insegnanti sono stati costretti a un’immersione nel digitale. Credo che in questi mesi abbiano fatto uno sforzo enorme e nella maggioranza dei casi positivo, ma certo bisogna mettersi in gioco ancor di più. A me per esempio spaventa parecchio questa ossessione della verifica che molti hanno, con il rischio che i ragazzi che tornano in classe in questi giorni siano massacrati da interrogazioni e prove. Vedo talvolta un’ansia di prestazione degli insegnanti che andrebbe frenata. Troppi ragazzi sono spaventati dal rientro, con la conseguenza che molti dicono di preferire la dad, il che per me è terribile.
Si è parlato a lungo per ragazze e ragazzi di “risarcimenti” estivi per tutto ciò che hanno perso in questi mesi. Ma è ipotizzabile tenerli a scuola, dopo un anno comunque così faticoso da tanti punti di vista?
Credo proprio di no. Il risarcimento deve essere culturale: ricco, ampio ma non scolastico. Ad esempio: i teatri e cinema sono stati chiusi per tanto tempo: perché, allora, non li riapriamo in nome dei giovani? Più in generale bisogna pensare ad attività di tanti tipi, al cui centro però deve esserci l’incontro, la socializzazione in contesti ricchi di stimoli che, ripeto, non siano la scuola: insomma non è che dobbiamo prolungare l’anno scolastico. L’estate sia una grande palestra su come si può incontrare la cultura in tanti modi.