La nuova educazione civica
Come va insegnata a scuola in tempo di crisi
Giovanni Moro
La pandemia che stiamo vivendo ha avuto l’effetto di mettere in luce quanto sia importante la responsabilità dei cittadini per la sicurezza della comunità, come ha notato Maurizio Molinari nell’editoriale dell’11 ottobre. È evidente che l’attuazione delle norme emanate per evitare il contagio è stata sostanzialmente affidata alla discrezionalità dei cittadini, i quali certamente nelle prime fasi della emergenza l’hanno esercitata in modo efficace. È quindi attuale la domanda sul modo di favorire e potenziare il senso di responsabilità comune di fronte a situazioni che nella “società del rischio” sono la norma.
Con quello della responsabilità torna in primo piano il tema della educazione civica nelle scuole. Un po’ tutti la invocano per far acquisire ai nostri giovani il senso della loro appartenenza alla comunità, con le prerogative e, appunto, le responsabilità che ciò comporta.
Questa richiesta pressante, tuttavia, avviene in un contesto caratterizzato da disinformazione e confusione. È singolare, ad esempio, che si parli (perfino nel testo della recente riforma) di “reintrodurre” la educazione civica nelle scuole, quando questa materia non ha mai smesso di essere presente nei programmi scolastici e non può quindi essere reintrodotta. Inoltre, i documenti ufficiali non chiariscono in alcun modo in che cosa precisamente essa consista: la materia è una congerie di temi più diversi a cui si aggiunge un fumoso richiamo al “cittadino attivo”. Forse è anche per questa confusione che si auspica che la scuola insegni a essere beneducati (“legate i ragazzi al loro banco e insegnate loro le buone maniere”, come si sente dire); un assunto che già Aristotele riteneva scorretto: un buon cittadino non è necessariamente una persona eccellente e viceversa.
Infine, di quali attività si svolgano precisamente nelle classi durante le ore di lezione non c’è traccia nelle fonti, a partire da quelle istituzionali; quindi chi parla dice semplicemente la sua. E alla fine viene da pensare che tutto questo dibattere di educazione civica sia un alibi per le mancanze di altri attori — la famiglia in primo luogo, ma anche la politica, le istituzioni, le imprese, i media, le religioni, gli intellettuali.
Che cosa, dunque, possiamo effettivamente chiedere alla scuola? Direi soprattutto che la educazione civica abbia al suo centro la cittadinanza democratica nel suo complesso.
La responsabilità dei cittadini, infatti, non nasce da prediche, né da ordini, minacce o “spinte gentili”, ma si genera solo se è collegata al riconoscimento di uno status giuridico e sociale e a una identità costruita insieme; a diritti, cioè a standard di vita protetti dalla comunità e dalle sue istituzioni; all’esercizio di poteri circa il destino e le regole del gioco della collettività. Così come non si può pretendere la pratica di doveri senza effettività dei correlati diritti, non si può esigere senso di responsabilità senza inclusione nella comunità dei cittadini. E in particolare i giovani in Italia soffrono proprio di questa mancata inclusione.
A questo si dovrebbe accompagnare una presa di contatto effettiva con la realtà della scuola. Le poche informazioni disponibili, infatti, sono interessanti. Una ricerca condotta da Fondaca nel 2018 su un campione statistico di scuole secondarie superiori ci dice che pressoché in tutte vengono realizzati progetti extracurricolari di educazione civica.
Questi progetti, oltre a temi di modesta rilevanza, riguardano oggetti appropriati come la legalità, la memoria, l’ambiente, la Costituzione, la solidarietà, la cittadinanza digitale, la cura del territorio e dei beni comuni, le pari opportunità, la cittadinanza europea. In due terzi dei casi essi vengono realizzati attraverso forme di didattica non frontali (laboratori, visite, attività sul campo, ecc.) e proprio per questo hanno rilevanti effetti di apprendimento, sia dal punto di vista delle conoscenze (ad esempio, la fenomenologia delle mafie in Italia), sia da quello degli atteggiamenti (“ciò che alimenta le mafie è anche il nostro silenzio”). Quest’ultimo punto è particolarmente importante: la responsabilità non si insegna, si apprende.
Il cosa e il come, insomma, fanno la differenza. Entro questi limiti possiamo chiedere alla scuola che faccia di più e meglio la sua parte, senza rinunciare, s’intende, a pretendere lo stesso da tutti gli altri.