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La falla dell'università

L’università non ha la febbre, è proprio nei guai

08/10/2013
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la Repubblica

RAFFAELE SIMONE
 

Da una parte le università italiane salgono nella graduatoria inglese QS (Quacquarelli Symonds; non è il massimo, ma a caval donato…); dall’altro, due docenti universitari vengono arrestati a Messina con accuse gravissime mentre su un cardiologo romano un suo allievo rovescia l’addebito di aver fatto ricercatore non il più bravo ma uno che gli faceva da autista. La buona notizia compensa le cattive? Sì e no. Perché la buona notizia è modesta; mentre nella nostra università la tendenza a far vincere i concorsi ai famigli e non ai bravi è endemica e sentita quasi normale. Nel frattempo Maria Chiara Carrozza (un ministro che finalmente sa di università; meno di scuola) cerca di bloccare l’inondazione spingendo nell’immensa falla due piccole buone idee: bloccare la nascita di altri atenei (ne abbiamo 72, alcuni impalpabili), inclusi quegli indefinibili marchingegni che sono gli atenei telematici; e adoperarsi perché si crei un sistema europeo di ranking delle università controllato pubblicamente.
Ma la falla non si chiuderà. L’università non ha la febbre, è proprio nei guai. Sebbene abbiamo il dovere di avere speranza, sarebbe irresponsabile non riconoscere che il nostro sistema avanza da anni verso lo strapiombo, culturale, didattico, finanziario, organizzativo. Non posso fare qui analisi elaborate. Mi limito a indicare tre fattori di questo declino.
Il primo è l’asfissia finanziaria in cui l’università è stata cacciata da un paio di decenni e che le ha tolto non solo il denaro per investimenti ma anche per quello per funzionare (il cosiddetto Ffo, Fondo di funzionamento ordinario). A dare un colpo fatale in questo campo fu un professore, il poco rimpianto Tremonti, autore negli anni 2008-2010 di decreti iugulatori a cui si sono aggiunte poi una miriade di restrizioni recenti, non escluso un blocco delle retribuzioni maggiori (modestissime a confronto di quelle dei grand commis di pari grado nella funzione pubblica). Brilla la regola di turn over più crudele (anche questa tremontiana), per la quale, se si vuole assumere una persona di qualunque ramo (docente, ricercatore, tecnico), occorre che cinque del suo stesso costo vadano in pensione!
Il secondo fattore è l’inarrestabile e inosservata dissoluzione della figura del professore. Non solo per
il motivo che ho appena detto. Ma anche perché i professori sono anziani (si diventa ordinario mediamente a 51 anni), non tutti di qualità eccelsa (i concorsi sono quel che sono), dalla moralità pubblica spesso depressa, poco attivi (il 7 per cento di loro non produce ricerca da anni, con punte del 30: dati Anvur), demotivati dalle continue ristrutturazioni, scontenti, sottratti a ogni ispezione e sovente sostituiti da quei quasi- colleghi che si chiamano professori a contratto. Costoro sono persone dell’origine più svariata (ricchi professionisti e famosi artisti, ma anche neolaureati inesperti, frettolosi mezzibusti televisivi) che accettano di insegnare per 2.000 euro all’anno senza passare alcuna reale selezione o concorso. Questa figura fu negli anni Ottanta una geniale invenzione di Antonio Ruberti per portare nell’università figure professionali di alto profilo; è degenerata all’italiana per tappare i buchi e soddisfare piccoli appetiti. Diventati ormai una valanga (a Milano il 54,4 per cento del totale; a Firenze il 52,9), i professori a contratto in alcuni corsi di studio sono la struttura portante – cioè, un’università fatta da estranei.
Il terzo fattore è una governance scombinata, elettiva da cima a fondo e quindi disturbata da continue campagne elettorali, nella quale nessuno risponde davvero di quel che fa. Ristrutturata mille volte con una furia che si direbbe sadica, la governance della nostra università finge democrazia ma produce deresponsabilizzazione. I capi delle strutture tendono in effetti ad assicurarsi più il consenso degli elettori che l’assenso degli amministratori o degli studenti. La qualità, la disciplina nel servizio e l’accuratezza delle prestazioni offerte sono perciò di rado il loro pensiero principale. Il primo indizio di ciò è che la nostra è l’università europea occidentale che attrae meno gli stranieri.
Sento già che mi si obietta che non bisogna fare di ogni erba un fascio e che ci sono tanti “punti di eccellenza”. È una storia che s’è già sentita e che ha fatto il suo tempo. “Dal letame nascono i fiori” prometteva De Andrè. Sarà, ma dipende dalla proporzione: se è squilibrata, dal letame non nasce un bel niente, come nell’università italiana si vede ormai con chiarezza meridiana.


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