La continuità Renzi-Gelmini: costo del lavoro e politica della ricerca e dell’innovazione
di Francesco Sylos Labini
Pochi giorni fa (il 14 maggio 2017) l’ex Presidente del Consiglio, intervenendo alla trasmissione l’Arena ha rilanciato una fake news che da tempo ha inquinato il dibattito pubblico sul tema dell’università e della ricerca “In Italia i fondi per la ricerca non sono più bassi, a livello pubblico, della media europea”.
L’origine della fake news, senza bisogno del debunker di turno tanto in voga di questi tempi, è molto semplice: l’ex Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini intervistata dal Corriere della Sera, durante il periodo caldo della discussione di quella che (impropriamente) è passata alla storia come “Legge Gelmini” dichiarò “È risibile il tentativo di qualcuno di collegare la bassa qualità dell’Università italiana alla quantità delle risorse erogate. Il problema, come ormai hanno compreso tutti, non è quanto si spende (siamo in linea con la media europea) ma – osserva il ministro – come vengono spese le risorse destinate all’università”
Il che significa che nonostante un investimento pari agli altri paesi europei la situazione dell’università e della ricerca italiana è mediocre e per questo bisogna procedere con l’infausta “riforma epocale” che porta il nome dello stesso ministro. Tuttavia all’epoca (2009), secondo i dati Eurostat, la spesa pubblica per istruzione terziaria in Italia non raggiungeva lo 0,7% del PIL contro una media Europea di circa il doppio.
Come è ben noto la situazione dal 2010 ad oggi è ben peggiorata con l’Italia che ha tagliato il 20% dell’intero budget del finanziamento universitario, mentre, ad esempio in Germania dal 2005 la spesa scientifica generale del governo federale è aumentata di un enorme 60% – da 9 miliardi di euro fino a circa 14,4 miliardi di euro nel 2013. Non è un caso che anche la ricerca industriale abbia prosperato: la Germania è ormai vicina a spendere il 3% del suo prodotto interno lordo sulla scienza e la tecnologia, un obiettivo fondamentale della strategia di crescita dell’Unione europea 2020 che solamente Finlandia, Svezia e Danimarca hanno rispettato finora.
Tradotto in cifre nell’area della Germania, dove ancora regge la competitività nel mondo globalizzato, si spendono 635 dollari per abitante in istruzione terziaria, contro i 489 dell’area anglo-francese, i 340 dell’area mediterranea e i 202 dell’area orientale. Questi significa che nell’Europa settentrionale si spende il doppio per l’università rispetto ai paesi mediterranei e il 30% in più rispetto all’area anglo-francese. Nell’area della Germania s’investono in ricerca e sviluppo 162 miliardi di dollari l’anno, una cifra superiore del 53% a quella dell’area anglo-francese e addirittura del 245% a quella dell’area mediterranea. Questa situazione si ripercuote ovviamente nella produzione beni e servizi ad alta tecnologia e nella capacità d’innovazione (ad esempio nell’area tedesca in un anno si producono 2,4 volte più brevetti che nell’area anglo-francese e addirittura 5,4 volte più che nell’area mediterranea).
Questa situazione rende dunque imprescindibile per il nostro paese abbassare il costo del lavoro, diminuendo chiaramente le relative tutele, per rimanere competitivi a livello globale. La bassa spese in ricerca e sviluppo, la bassa capacità d’innovazione e le politiche sul lavoro sono dunque due facce della stessa medaglia. E’ di qualche mese fa un opuscolo del Ministero dello Sviluppo Economico (Invest in Italy) scritto per attrarre gli investimenti stranieri in cui l’attrattiva principale del nostro paese è così descritta: “un ingegnere in Italia guadagna in media 38.500 euro, quando in altri Paesi europei lo stesso profilo ne guadagna mediamente 48.800” dato che “i costi del lavoro in Italia sono ben al di sotto dei competitor come Francia e Germania. Inoltre, la crescita del costo del lavoro è la più bassa rispetto a quelle registrate nell’Eurozona”.
Le uscite di Gelmini e Renzi, pur essendo belle e buone fake news che pochi però notano e approfondiscono, non sono casuali, ma sono l’espressione di una stessa politica economica, che è rimasta invariata negli ultimi tre lustri almeno e che è funzionale a interessi molto semplici e diretti. L’impresa italiana deve puntare a contenere il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori poiché non può permettersi di competere sul terreno dell’innovazione: il divario con gli altri paesi più rilevante si concentra, infatti, nella spesa in ricerca e sviluppo effettuata dalle imprese. La bassa intensità tecnologica della struttura produttiva del nostro paese rende a sua volta bassa anche la domanda di forza lavoro con alta formazione. Questa situazione genera un circolo vizioso con una pressione al ribasso sulla spesa pubblica in ricerca e dell’istruzione superiore con un risultato apparentemente paradossale. Nel nostro paese ci sono la metà dei laureati degli altri paesi europei e meno della metà dei dottori di ricerca che non riescano a trovare posti di lavoro al livello del loro grado di istruzione.
Non è un paradosso ma un risultato ottenuto con l’ottusa politica dei governi degli ultimi vent’anni. La rotta, apparentemente senza alternative, che è stata tracciata è caratterizzata dalla desertificazione non solo tecnologica, ma anche scientifica e culturale e dalla crescita di una tipologia lavoro sempre più mortificante per il paese e, soprattutto, per le nuove generazioni. Ma è anche senza speranza nel lungo termine poiché le economie emergenti la competitività la stanno dirigendo sull’aumento della spesa in ricerca e investimenti in settori tecnologicamente avanzati.
L’alternativa però c’è sempre ed è rappresentata dalla ricostruzione della base scientifica e tecnologica, ed anche intellettuale del nostro paese. Quest’obiettivo, che non può che essere guidato dall’intervento pubblico, considerato l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti, segna la linea di demarcazione tra le forze politiche che vorrebbero innovare il paese da quelle che invece fanno interessi di circoli ed élites ristrette sulle spalle della stragrande maggioranza dei cittadini. Un tempo si sarebbe chiamata la linea di demarcazione tra progressisti e conservatori o magari tra sinistra e destra.
(Una versione poco diversa di questo articolo è stata pubblicata su Il Fatto Quotidiano il 21 Maggio 2017)