La “buona scuola” si adatta al declino del paese
Non è un paese per gente istruita. Fra gli ultimi per la spesa, docenti malpagati e molti abbandoni (
Il nostro paese e il suo sistema produttivo non sembrano fatti per persone istruite. D’altra parte negli ultimi anni non sono mancate dichiarazioni di ministri del tipo che «con la cultura non si mangia» (Tremonti) o «chi non sa fare insegna» (Castelli).
Il governo attuale, con il disegno di legge sulla “buona scuola” ha annunciato una riforma che vorrebbe apportare cambiamenti significativi. Ma qual è lo stato delle cose? E come intende intervenire il governo?
Una sezione del Rapporto sullo stato sociale 2015, presentato ieri nella facoltà di Economia della Sapienza di Roma, analizza la situazione del nostro sistema d’istruzione e le sue connessioni con il nostro sistema produttivo. Il futuro di un paese è nei suoi giovani e nella capacità delle generazioni precedenti di trasmettergli il loro bagaglio positivo di conoscenze e valori (è questo l’aspetto fondamentale dei rapporti intergenerazionali; che andrebbe curato, non incrinato mettendo strumentalmente i giovani contro gli anziani).
Più elevati livelli d’istruzione favoriscono il benessere della collettività e dei singoli; dalla formazione scaturiscono vantaggi economici e sociali; l’educazione in senso lato è un importante fattore di miglioramento, anche delle condizioni di salute, ma nel nostro paese non è adeguatamente considerata.
La nostra spesa pubblica per istruzione è scesa al 4,2% del Pil contro il 5,3% della media europea e siamo al penultimo posto tra i 15 paesi originari dell’Unione Europea (EU15).
Dal 2008 al 2011 la spesa per studente è diminuita del 12% e siamo sotto la media di 13 punti percentuali.
Gli abbandoni scolastici nel 2013 erano del 17% contro una media europea del 12%.
I nostri docenti sono tra i meno pagati (l’83% della media Ocse; il loro stipendio è pari al 60% del guadagno medio di un lavoratore italiano laureato).
L’alfabetizzazione degli adulti registra la posizione peggiore nell’EU15: il 70% non raggiunge il livello ritenuto “il minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali e occupazionali”.
Nella media dei paesi Ocse il confronto tra i costi sostenuti per laurearsi e i vantaggi che ne derivano in termini di maggiori redditi da luogo ad un tasso di rendimento interno privato del 14%; nella media dei paesi europei supera il 15%, in Italia è solo dell’8%. Dunque, da noi andare all’università conviene molto meno; non è strano che nella popolazione tra i 30 e i 34 anni, solo il 22% è laureata, contro il 40% dell’EU15.
A differenza di quanto avviene in Italia, nei paesi dell’EU15 i laureati registrano un tasso d’occupazione nettamente più alto dei meno istruiti.
Nel nostro paese, i giovani tra i 15 e i 29 che non studiano, non hanno e non cercano lavoro — i cosiddetti NEET — sono cresciuti dal 20% nel 2005 al 26% nel 2013, mentre nella media europea si è passati dal 14% al 15%. Dal 2006 al 2011, il passaggio dei nostri diplomati all’università è diminuito dell’8%. Con sempre minori risorse formiamo ancora buoni laureati, ma poi il sistema produttivo li spinge all’estero, dove magari s’incontrano con nostri capitali in imprese concorrenziali alle nostre.
Dunque nell’istruzione emerge una nostra vera anomalia. La commissione europea da anni non esprime più preoccupazioni per la sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico; invece ci ha richiamato ad accrescere la spesa per istruzione e formazione, ci chiede di contrastare i bassi tassi d’istruzione, la scarsa diffusione della formazione permanente e gli elevati tassi d’abbandono scolastici. Si aggiunga che il sistema di precariato ha suscitato una sentenza di condanna della Corte di Giustizia Europea.
Negli ultimi anni lo sviluppo del nostro sistema d’istruzione è stato limitato anche dalle deleterie politiche di consolidamento fiscale imperanti nell’Unione; ma prima ancora è stato condizionato da un sistema produttivo sempre più appiattito sui settori “maturi”, che cerca la competitività perseguendo la “via bassa” e perdente della riduzione del costo del lavoro e della sua formazione. Le politiche economiche e sociali non hanno puntato sull’innovazione produttiva, sulla connessa formazione dei lavoratori e sulla più generale diffusione dell’istruzione e della ricerca. Nella divisione internazionale del lavoro siamo retrocessi allontanandoci dai sistemi in grado di competere per l’apporto qualitativo e tecnologico dei loro sistemi produttivi e formativi. Le politiche per la scuola, l’università e la ricerca si sono adattate al declino del nostro paese che non è solo economico.
Rispetto a questa allarmante tendenza, la riforma si focalizza su aspetti pur pertinenti quali la valutazione, ma concentrandola nel solitario giudizio dei presidi; sono invece sottovalutate questioni drammaticamente urgenti quali la manutenzione delle scuole; più in generale, viene elusa la necessità primaria di aumentare e comunque concentrare le risorse sul sistema pubblico che da troppo tempo è trascurato. I progetti di nuovi meccanismi di finanziamento da parte di privati e i disegni di aziendalizzazione degli studi scolastici implicano l’elevato rischio di influenzare — più o meno surrettiziamente — sia i contenuti e l’orientamento dell’insegnamento sia l’equità dell’accesso all’istruzione che costituiscono responsabilità primarie delle istituzioni pubbliche.
(Felice Roberto Pizzuti, il manifesto, 9 giugno 2015)