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L'uovo poco sodo del Ministro Giannini

Il Ministro Stefania Giannini intende abolire i concorsi locali per il reclutamento accademico. Ci chiediamo, sommessamente: cosa vorrà dire?

09/07/2014
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ROARS

Renzo Rubele

Cambiare verso, cambiare tutto.  Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini è intervenuta diverse volte nel dibattito pubblico sul tema del reclutamento accademico, e in particolare in coincidenza con la pubblicazione di una inchiesta (di sapore scandalistico) sull’abilitazione scientifica nazionale (ASN) da parte dell’“Espresso”. Non saremo qui noi a commentare i criteri, le procedure e gli esiti di questa intrapresa, nella forma in cui è stata congegnata e attuata dai vari responsabili (Parlamento, Ministri, ANVUR, Commissari): su ROARS è stato già detto praticamente tutto. Ci interessa annotare qualcosa sulle parole del Ministro, riassumibili attraverso il seguente enunciato (riportato fra “caporali” nel testo, e quindi attribuito direttamente all’intervistata):

«Cambierò tutto. Il sistema dell’abilitazione nazionale va trasformato, e i concorsi locali vanno aboliti tout court. Ogni università deve poter assumere i docenti che vuole. Chi assumerà parenti e ricercatori incapaci lo farà a proprio rischio e pericolo: gli atenei che produrranno poco subiranno ripercussioni economiche, gli taglieremo i fondi»

Ora, la materia del reclutamento del personale docente e ricercatore universitario è stata oggetto di normativa la più varia nei 150 di storia unitaria del nostro Paese, e di certo non vogliamo impancarci ad esperti e giudici supremi di una sì grande messe di idee, pratiche e valutazioni di merito, che hanno purtuttavia contribuito a determinare la composizione del nostro corpo accademico. Ci ha incuriosito, però, l’approccio schematico del Ministro Giannini, convinta di possedere la soluzione che i suoi predecessori, in un secolo e mezzo, non avevamo proprio visto, un vero uovo di Colombo: l’abolizione dei concorsi.

In un’altra parte della medesima intervista, con riferimento alla Scuola, il Ministro sembra però pensarla diversamente:

«[…] abbiamo iniziato le procedure per il concorso per la scuola 2015. Ci saranno 17 mila nuove assunzioni entro il 2016. Circa la metà saranno giovani, gli altri saranno presi dalle graduatorie. Ma già l’anno prossimo prenderemo altri 6-7 mila ragazzi, già idonei perché hanno superato il concorso, molto selettivo, istituito dal mio predecessore Francesco Profumo».

Il concorso per la scuola andrebbe bene, quello universitario (locale), no. Ora, il nostro tentativo di capire ed analizzare il pensiero del Ministro risulta penalizzato dalla mancanza di una documentazione o proposta “ufficiale”, che però è stata annunciata come prossima, in coincidenza con il recente decreto che sospende il nuovo ciclo dell’ASN. Tuttavia, nel contenuto degli annunci, l’intento di Stefania Giannini è apparso piuttosto di tipo “ideologico”: il piglio deciso, la pronta reazione agli episodi di “malauniversità” denunciati dal settimanale, l’enunciazione di principi generali “proto-liberistici” nella gestione degli Atenei, l’affidamento sui “meccanismi punitivi” di natura economica, e così via. Qualcosa che intanto andasse bene per la comunicazione mediatica, a due settimane dalle Elezioni Europee (che però non sono andate bene, per lei).

How do you say “concorsi”? Da osservatori del dibattito pubblico, avevamo notato una certo “attivismo” del Ministro Giannini sulla materia. Come quando, in un’altra (precedente) intervista, ebbe a dichiarare: «La parola concorso non ha una traduzione nelle altre lingue, significherà pur qualcosa?». Questa non ce la aspettavamo, da una Professoressa di Glottologia e Linguistica, ma qui sentiamo anche riecheggiare un altro slogan, fatto circolare in analoghi dibattiti, secondo il quale il nostro sistema di reclutamento sarebbe assai singolare, perché altrove “non si fanno concorsi”. Ohibò!

Cominciamo con il rassicurare il Ministro, ma anche il lettore medio, che la parola “concorso” è ben tradotta – e il concetto ancor meglio applicato, potremmo dire – dovunque. Consigliamo innanzitutto la consultazione di un testo assolutamente neutrale per la materia di nostro interesse, ma di sicura autorevolezza non solo dal punto di vista giuridico (e linguistico), ma anche di contenuto metodologico, e cioè il Regolamento per i concorsi banditi dall’Unione Europea. Tutti coloro che hanno avuto a che fare con questo e simili ambienti internazionali, sanno bene non solo che in francese “concorso” si dice “concours”, e in inglese “(open) competition”, ma che valgono sempre le caratteristiche riportate nella definizione:

«I concorsi sono aperti a tutti i cittadini dell’Unione europea che soddisfano i requisiti richiesti secondo una procedura che offre a tutti i candidati l’equa possibilità di dimostrare le proprie capacità e assicura una selezione basata sul merito, nel rispetto del principio della parità di trattamento».

Che poi, nei propri usi domestici, i Paesi anglofoni utilizzino tipicamente la locuzione “(recruitment) selection” non cambia la natura competitiva del processo, funzionale a determinare una graduatoria: si porta l’accento su un’altra caratteristica del concorso, quella di “fare selezione” fra i partecipanti – né più né meno come quando in Italia si parla di “valutazione comparativa”.

Academic recruitment. Però – si dice – il lavoro accademico ha le sue specificità: non si tratta di assumere impiegati per un ufficio postale. Vero, e allora? Una qualunque “recruitment and selection guide” darà numerosi e approfonditi consigli per svolgere bene tutte le fasi della procedura concorsuale, genericamente intesa, ma poi starà alla capacità e alla responsabilità dell’ente o dell’azienda, incluso le istituzioni universitarie, fare le opportune scelte in relazione alla situazione specifica. Ciò che spesso manca, nello sconnesso dibattito italiano, è la corretta percezione di ciò che è analogo, nei diversi sistemi nazionali, e di ciò che non può esserlo, a causa di vincoli giuridici, istituzionali e sociali: farsi una ragione di tutto questo diventa per molti un ostacolo alla battaglia ideologica fra opposte fazioni – e quindi si preferisce praticare qualche scorciatoia concettuale.

Al di là della considerazione principale che informa queste righe, e cioè la “normalità” dello strumento concorsuale, va chiarito che esistono anche le eccezioni, più o meno estese. La principale di queste, che integra anche una differenza sostanziale fra sistema accademico italiano e molti altri sistemi, è la netta distinzione fra reclutamento (di esterni) e promozione (di interni) a livelli o funzioni superiori, laddove nel secondo caso non si dà corso a bando pubblico e successiva selezione (valutazione comparativa) dei candidati, ma si istituisce una procedura di valutazione non comparativa, sempre tipicamente con l’ausilio di una commissione giudicatrice, per gli aspiranti alla posizione. Altre situazioni che richiedono l’utilizzo di procedure non convenzionali sono quelle collegate a scelte politiche riguardanti l’apertura di nuovi e rilevanti programmi di ricerca, o addirittura istituti, per i quali è nota la chiara fama di un ristretto numero di specialisti o ricercatori eccellenti. L’istituto della “chiamata diretta”, come lo indichiamo nel nostro sistema, è però molto meno esteso di quanto si potrebbe pensare.

Abolire qualcosa perché non funziona. Ma - si obietta - è l’istituto del concorso come tale a non funzionare, in Italia. I concorsi truccati sarebbero la regola, e quindi di cosa parliamo? Cosa stiamo difendendo? Premesso che noi non siamo gli avvocati di nessuno, e conosciamo la complessa e difficile realtà italica, che non manchiamo di criticare, qui stiamo ragionando su un piano diverso e attinente alle politiche da seguire. E diciamo chiaramente che non ci piace questa attitudine nichilista-qualunquista che pervade ormai molti settori del dibattito pubblico nostrano, in base al quale si «butta il bambino con l’acqua sporca». Approccio applicato a 360°, e da persone di diversa estrazione culturale.

Non ci piace innanzitutto perché noi preferiamo puntare sull’atteggiamento riformista, e poi perché siamo intimamente convinti che tutte le attività umane, tutte le “costruzioni sociali”, anche quelle complesse e più difficili, esistano per dei buoni motivi: rinunciarvi significa rinunciare al particolare obiettivo che si prefiggeva quella attività, quella costruzione, e per il quale si era scelta e definita proprio quella. Un uovo si può cuocere in molti modi; se io voglio mangiare un uovo sodo so che devo tenerlo per 9 minuti in un pentolino di acqua bollente. Inoltre conosco alcune linee guida per fare le cose “bene”, ad esempio so che l’uovo dev’essere già a temperatura ambiente, altrimenti si rompe (quindi lo tolgo dal frigorifero con giusto anticipo). Altre procedure condurrebbero ad una diversa modalità di preparazione dell’uovo: magari sempre commestibile, ma non ad un uovo sodo. Se poi ci fossero attorno ai fornelli dei bambini dispettosi che giochicchiano con il pentolino, mettono le dita nell’acqua, ecc. dovrei fare in modo di educarli a comportarsi bene, ed eventualmente allontanarli dalla cucina.

Per tornare alla nostra Signora Ministro, dovremmo pensare che i concorsi universitari locali siano irriformabili? Mentre lo sarebbe, invece, l’Abilitazione Nazionale, secondo le intenzioni dello stesso Ministro? Ora, leggendo l’intervista della On. Giannini molti hanno pensato alle c.d. “chiamate” degli abilitati a PA o PO, che – secondo la stessa legge 240/2010 – possono essere declinate in vari modi. In particolare, esistono le procedure speciali “deregolamentate ex art. 24 comma 6”, che, secondo qualcuno, dovrebbero somigliare a delle promozioni, ma che sono invece pur sempre “concorsi interni”. A chi hanno affidato le responsabilità valutative, le singole sedi? Come si stanno comportando?

Ci interessa ricordare, peraltro, che continuano ad esistere anche i concorsi locali per l’assunzione dei ricercatori (“tipo A” o “tipo B”) e degli assegnisti di ricerca (e, vorremmo aggiungere, i concorsi per l’ammissione al dottorato di ricerca); è anzi in queste fasi della carriera che si decidono le prospettive dei più capaci rispetto ai meno capaci. Come penserebbe di intervenire in questo campo il Ministro? Come giudica la normativa per i concorsi da ricercatore emanata a suo tempo (D.M. n.89/2009) dalla Ministro Gelmini?

Premi e punizioni. Non vogliamo però addentrarci negli aspetti tecnici più di quanto abbiamo già fatto, perché – come abbiamo detto – l’intervento del Ministro era prevalentemente ideologico. Il ritornello delle punizioni in termini di “ripercussioni economiche” è uno slogan già sentito molte volte, e quindi diciamo la nostra anche su questo: l’uovo di Colombo rischia di diventare immangiabile. Non è accettabile innanzitutto l’assioma che è implicato da questo discorso, e cioè che, se le valutazioni concorsuali sono delle ciofeche, quelle per determinare il merito delle Università – da cui far discendere premi e punizioni in base alla “produttività” (?) – sarebbero invece magnifiche. Non ce la beviamo, soprattutto dopo aver visto in azione i pessimi strumenti metodologici della VQR (se si sta riferendo a tale esercizio). Ogni valutazione deve avere un senso, ed essere eseguita al meglio: ed infatti altrove si cerca di fare bene sia le une sia le altre, secondo le rispettive finalità. E le prestazioni del personale accademico, nel corso della carriera, si valutano – eccome! – ma indipendentemente dal destino delle sedi universitarie, che sono per forza di cose legate sottoposte a più ampi vincoli giuridici, istituzionali e sociali (di cui abbiamo già ricordato l’importanza).

E poi: la Sen. Giannini pensa davvero che l’ideologia pavloviana della “correlazione causale” fra “ripercussioni economiche” e “azioni virtuose” sia così diffusa, e così concepita, nel mondo universitario? Ad esempio, l’esercizio di valutazione comparativa retrospettiva della ricerca che si pratica nel Regno Unito, il RAE/REF, dipende molto più dalla particolare politica di sistema in vigore colà (distinzione fra didattica e ricerca a livello di singola Università e di singolo accademico, diverso stato giuridico, elevata difformità istituzionale) che dall’ideologia. E lo sa, il Ministro, che la relativa ripartizione delle risorse (quelle ordinarie, non premi e punizioni) si fa in maniera indipendente fra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord – cioè l’elemento geopolitico torna comunque in campo? Negli Stati Uniti, del resto, tali esercizi di valutazione non si fanno proprio: lì le Università statali sono proprietà dei singoli Stati, che provvedono al loro finanziamento ordinario in modo autonomo e totalmente scorrelato gli uni rispetto agli altri.

Siamo invece certi della presenza, in tali sistemi, di:

  • forti meccanismi reputazionali, e quindi etici, a livello delle rispettive comunità scientifiche, che viaggiano in parallelo a qualunque considerazione economica o politica si voglia fare;
  • cospicui finanziamenti selettivi ai progetti di ricerca (e quindi altre valutazioni “ex-ante”, sulle idee, sul lavoro da fare), assegnati indipendentemente, in linea di principio, dalla sede di appartenenza.

Questi sono solo alcuni frammenti della discussione che vorremmo si aprisse sulle idee del Ministro. Anche perché non sappiamo proprio immaginare che cosa ci potrebbe essere di meglio per il reclutamento accademico, al di fuori dei concorsi, e non vorremmo vederci rifilare delle uova marce al posto dell’uovo di Colombo.


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