L’Università senza soldi né idee finanzia le ricerche degli altri
Il paradosso italiano: bravi ricercatori ma sistema poco attrattivo. E l’internazionalizzazione resta la Cenerentola nei finanziamenti
Gianna Fregonara
L’Università italiana, in deficit di fondi e di progetti che possano dare ossigeno al sistema, da anni ormai si permette il lusso di finanziare la ricerca di Paesi come la Francia e la Germania. È l’effetto perverso che il nostro Paese produce all’interno dei piani strategici di ricerca europei. Pochi dati per dare le dimensioni dello spreco italiano: nel piano europeo Horizon 2020 l’Italia contribuisce per 11 degli 80 miliardi complessivi (la quota di ogni Paese è calcolata in base al reddito e all’Iva), che equivalgono al 14 per cento dei fondi. Nel 2014, primo anno di operatività del piano, su 328 ricerche finanziate ne sono state approvate 28 italiane. Ma solo dieci progetti hanno avuto come sede una università del nostro Paese, cioè neppure il tre per cento: gli altri ricercatori, pur di nazionalità italiana, hanno preferito sedi estere.
Pochi fondi e pochi progetti
Le cause sono più d’una naturalmente. La cronica mancanza di fondi e di certezze per i ricercatori è certamente la prima. Solo pochi mesi lo speleologo Francesco Sauro, incoronato dal Timecome uno dei 10 scienziati che contribuiranno a cambiare il pianeta, ha ottenuto un rinnovo della sua borsa di ricerca solo per il clamore suscitato dalla rivista britannica: non c’erano più fondi per finanziare le sue ricerche all’Università di Bologna. Ma un’altra causa del male universitario italiano è da ricercare nel sistema stesso: come è possibile che i nostri ricercatori siano tra i più citati nelle riviste scientifiche e le nostre università arranchino sia che si tratti di classifiche che di ricerca? A mettere in evidenza la mancanza di «capacità progettuale delle Università» è lavoce.info, che suggerisce anche alcuni miglioramenti sui quali sarebbe ora di lavorare da subito.
Risorse per l’internazionalizzazione
E’ questione di prendere esempio soprattutto da chi ha un comportamento virtuoso: «Le università leader hanno creato strutture specifiche per sostenere la partecipazione a progetti internazionali, mantengono contatti sistematici con Bruxelles e incoraggiano i ricercatori a partecipare alla valutazione dei progetti europei. Ma servirebbe anche un’azione dell’amministrazione centrale: utilizzare sistematicamente una quota delle risorse dei fondi strutturali per attività di formazione, tutoraggio e assistenza tecnica ai team di ricerca e al personale amministrativo, oberato da una burocrazia interna complessa, per migliorare la capacità di preparare e gestire i progetti europei».
Il piano nazionale per la ricerca
Peccato che l’ultima versione e del piano nazionale per la ricerca, presentato dal ministro dell’Istruzione a maggio, rimodulando l’uso dei fondi già stanziati in gran parte dalla legge di stabilità 2014 e non ancora usati da questo governo, destini all’internazionalizzazione degli Atenei solo il 5 per cento dei fondi. Resta d’attualità la provocazione fatta un anno fa dalla rivista Roars: la prestigiosa classifica di Shanghai , se calcolasse non solo i risultati ma anche la spesa complessiva per ottenerli sarebbe guidata da quattro atenei italiani. Una provocazione, appunto. Non una consolazione