L'università italiana al bivio
Mentre le prime pagine sono occupate dalla notizia dell'ennesima indagine sui concorsi universitari sarebbe bene non disgiungere ogni valutazione dallo stato di sofferenza attuale dell'università
Marco Plutino
Mentre le prime pagine sono occupate dalla notizia dell'ennesima indagine sui concorsi universitari sarebbe bene non disgiungere ogni valutazione dallo stato di sofferenza attuale dell'università, che è quello denunciato dai docenti universitari con l'inedita astensione dal lavoro relativamente al primo appello di verifiche della sessione. L'astensione sta conseguendo percentuali di adesione significative ma le motivazioni che ne sono alla base credo che si possano dire patrimonio comune alla grandissima parte dei docenti universitari italiani e anche alle comunità degli studenti, a cui è stato procurato, con mille cautele, un minimo danno e che sembrano appoggiare largamente la protesta.
I docenti universitari non si limitato a rivendicazioni inerenti al trattamento giuridico ed economico, ma pongono la questione più generale del piano inclinato di dismissione del sistema universitario italiano, dell'atteggiamento d'insufficiente attenzione (per usare un eufemismo, come si vedrà) dei governi rispetto alla ricerca scientifica, della considerazione che si ha per il ruolo sociale del docente universitario, per la qualità della formazione della classe dirigente.
Per dirla sinteticamente: del ruolo che il pensiero critico – l'ancora di salvataggio dei nostri tempi - tipicamente coltivato e trasmesso nelle università, debba avere nella società italiana. Tralasciando qualcosa, poco, di buono che è stato fatto (e ci mancherebbe), è lunghissima la sequenza d'inerzie e di errori, non esenti da qualche vera e propria ingiustizia e ripicca. Non è necessario ripercorrerla, quanto semmai ricordare sinteticamente a quale situazione questo impasto di atteggiamenti ha condotto.
L'università italiana si trova in un tornante in cui si manifesta una crisi storica che fa impallidire le invettive che lo storico Rosario Romeo lanciava sulla stampa alcuni decenni fa sul degrado, e a suo dire, declino dell'università allora sagomata sul modello "di massa" post-sessantottino.
Esistono una marea di problemi e anche solo a fare un veloce richiamo di tutto occorrerebbe un pamphlet. Partiamo dai più banali e "sindacali": il docente universitario ha pagato, da una condizione sia chiaro relativamente tranquilla (però generalmente conquistata legittimamente con investimenti, meriti, valutazioni e profusione di intelligenza critica), più di ogni altra categoria pubblica la crisi di questi anni. Agganciato da sempre nel trattamento ai magistrati per la comune natura di argine verso ogni rigurgito settario, corporativo, massificante, autoritario (più ancora che con le garanzie giurisdizionali, con la preservazione del libero pensiero), si è visto poi, per decisione politica e con l'avallo dei tribunali, di soppiatto sganciato da questo simbolico, ma non solo simbolico, collegamento.
Come dipendente pubblico, il docente "non contrattualizzato" soffre come e più degli altri dipendenti pubblici della lunga stagione del mancato rinnovo del contratto, che ancora non si è concretizzata nei modesti aumenti concordati e che dovranno essere oggetto di altre attenzioni per la condizione di "non contrattualizzato". In più il docente universitario ha perso allo stato, probabilmente con un trattamento ingiustificatamente discriminatorio e, diciamolo chiaramente, quasi punitivo (esplicito con la destra al potere, forse più frutto di novitismo astratto, scarsa conoscenza delle situazioni reali e nomine non certo felici, per i governi di centro-sinistra) gli scatti di carriera che, peraltro, sarebbero diventati triennali e non più biennali. Di fatto gli stipendi sono assolutamente fermi da molti anni, mentre quelli dei magistrati per esempio sono sbloccati, e questo vuole dire che in termini reali si sono ridotti in modo non impercettibile. Non esiste tra l'altro un'adeguata consapevolezza sociale sul livello stipendiale dei docenti universitari, frutto di una percezione che lo ricollega in modo tralatizio ad certo status sociale e alla condizione (più che altro teorica) di dirigente dello stato: è un trattamento economico analogo o di poco superiore a quello di una figura preziosa ma non certo parte per definizione della ruling élite quale è un operaio specializzato. Con tutto il rispetto, quale idea di paese c'è dietro la realtà di una equiparazione della tecnica e della scienza? O che dire del fatto, incontrovertibile, che in sostanza lo stipendio è una retribuzione della didattica (limitatamente all'impegno minimo richiesto: le supplenze spesso non sono più pagate) ma non della ricerca, dal momento che passano poche centinaia di euro tra la retribuzione di professore universitario ed uno di scuola? Non richiede, la scienza, investimento personale, infinita pazienza, sacrificio, studio, e il dovere istituzionale dell'originalità? Questo dovere, poco o tanto, non è mai venuto meno nella stragrande parte dei docenti universitari.
Ma non è tutto. Molti docenti universitari sono abilitati e non ancora chiamati e questo è, pur in assenza di una pretesa giuridica, un danno giuridico ed economico non da poco (anni di differenza di stipendio e trattamento pensionistico andati in fumo). In più c'è la precarizzazione della docenza universitaria, in particolare i ricercatori, e il pensionamento del 50% dei docenti universitari (2007-2013, se non erro) è avvenuto senza turn over, prima bloccato per anni, poi sbloccato in misura del tutto insufficiente. Molti docenti universitari vivono con estrema ansia il proprio futuro che è divenuto uno slalom tra ostacoli di ogni tipo e soggetto al realizzarsi di condizioni imperscrutabili. Le regole concorsuali cambiano spesso e volentieri (n.d.A. ora se ne prefigura un'ulteriore modifica...), quasi a ogni cambio del governo e il reclutamento non riesce ad essere continuo e fluido. Le carenze di risorse degli Atenei, per i tagli dei trasferimenti pubblici, creano non di rado lunghe code per le chiamate, con effetti sulla serenità del lavoro e sul clima lavorativo che si possono immaginare. Si sono introdotti sempre più esplicitamente canali di finanziamento privatistico che disturbano il dispiegarsi di logiche istituzionali orientate alle scelte migliori nell'interesse pubblico.
Se guardiamo ai giovani, i posti di dottorato si sono drasticamente contratti e la formazione dottorale è diventata spesso irrilevante, per la chiusura di molti corsi di dottorato pregevoli e il confluire dei docenti in calderoni senza identità, sotto la sovrintendenza delle scuole di dottorato con nomi ecumenici, che comprendono le aree più disparate senza alcuna possibilità di seria formazione. E ciò per un titolo, ricordiamo (il phd anglosassone) che invece all'estero gode, dalla Germania agli Stati Uniti, di grande prestigio. Ma è dopo il dottorato che la situazione diventa ancora più dolente. Molti Atenei non bandiscono più assegni di ricerca con fondi pubblici e pertanto si limitano a bandire con risorse che provengono dal privato. Risorse che sono auspicabili se aggiuntive ma non se sostitutive di quelle pubbliche, e che se non adeguatamente inquadrate creano situazioni opache. Il che è ancora più grave quando l'assegno di ricerca, reiterato per un certo tempo, è divenuto una condizione imprescindibile per partecipare ai concorsi di secondo fascia (professore associato). A tale proposito, la docenza continua ad essere articolata, a differenza di molti paesi simili a noi, in ben tre fasce (ricercatore, associato, ordinario) ciascuna delle quali prevede la conferma triennale, con la conseguenza che la fascia più ambita si consegue spessissimo dopo il cinquant'anni (sei ordinari under 40 censiti nel 2015!), spesso dopo i sessanta, e talora mai; come peraltro inevitabile, ma non sempre, come dovrebbe avvenire, per carenza di ambizione o demeriti. In altri paesi dopo selezioni severe si diventa professori a tutti gli effetti (senza specificazioni) in giovane età o si entra in posti di prestigio nelle strutture dello stato, quando si è ancora assistiti da grandi energie e non quando si è sfibrati da una lunghissima, e spesso, avara e poco dignitosa, gavetta.
In questo contesto invogliare un giovane a intraprendere il sentiero della ricerca può diventare un atto di irresponsabilità, almeno quanto invitarlo a farsi un futuro fuori dall'Italia (nei settori in cui è più possibile) - dove non mancano le soddisfazioni - un atto poco patriottico (se è concesso il termine) ma soprattutto utilitaristicamente fallimentare per lo Stato. Una volta cadevano nella rete una parte significativa dei migliori laureati, che ora si orientano verso altre professioni con ben altre soddisfazioni economiche, e se a loro resta il rimpianto e la passione non è, viceversa, con la passione di quelli che sono dentro il sistema che potrà reggere ancora a lungo.
Docenti e giovani hanno più di qualche ragione per essere scontenti e qualche volta frustrati o demotivati, mentre vengono bombardati di convocazioni per commissioni, mail con scadenze, schede da compilare di valutazioni e autovalutazione che tolgono tempo prezioso e, nella migliore tradizione italiana, non approdato a nulla o quasi. A tale proposito, si ha la sensazione che la cultura della valutazione di tipo anglosassone, apprezzabilmente introdotta, non ha forse raggiunto ancora quella soglia critica da lasciar intravedere i suoi grandi benefici, mentre se ne scorgono molti piccole e, qualche volta, grandi difetti. Tra questi è indubbio un percepibile peggioramento della qualità media delle pubblicazioni scientifiche e una certa crescita delle frodi scientifiche, che naturalmente ha anche altre ragioni.
La ricerca italiana nonostante ciò, è bene ribadirlo, resta ad un livello decisamente alto per le pubblicazioni e a un livello discreto per i brevetti, e si colloca, anche se in mancanza di cambiamenti è verosimile che avvenga ancora per poco, nel gruppo di testa mondiale. Ciò rappresenta un miracolo nelle condizioni date e qui illustrate. Basti dire che i colleghi dei grandi paesi con i quali ci confrontiamo guadagnano, negli atenei pubblici, generalmente il doppio, se non il triplo, per non dire della Germania dopo, per avere il senso delle abissali differenze, ogni professore ordinario è messo in condizione di fare al meglio il proprio lavoro didattico e di ricerca grazie alla preziosa disponibilità di una segretaria. Si paragoni la situazione con l'Italia, dove una segretaria di dipartimento fa i salti mortali per essere utile anche a cento e più professori costituenti il dipartimento, che ovviamente evitano di disturbarla se non per il minino necessario. Così il professore universitario perde ore a compilare moduli, prepararsi itinerari, diffondersi via posta i prodotti della ricerca e così via.
Se dalle "risorse umane" passiamo alle strutture, non va meglio. Le biblioteche universitarie fanno estrema fatica, e la gran parte in pratica non acquista più se non, con ritardo, lo stretto necessario per non aprire lacune, anzi voragini, incolmabili. Le riviste cartacee sono spesso in dismissione con rottura di continuità di serie in genere prestigiose. Si sopravvive con il pregresso, gli invii tra colleghi, i prestiti interbibliotecari e con l'online. Ma non può essere tutto. Spesso i docenti, anche per la passione genuina che nutrono per i testi, ma pure per ovviare a procedure burocratiche poco snelle, preferiscono acquistare volumi con risorse proprie, sottraendo ulteriori risorse alla famiglia. Tra l'altro i fondi di ricerca a disposizione dei docenti sono ben poca cosa, spesso insufficienti anche per andare a un paio di convegni all'anno (quelli dell'associazione scientifica di riferimento...), e quindi vengono utilizzati per comprare toner, cartucce, stampanti, risme di carta e, ancora, qualche libro, come è giusto ma non dovrebbe essere esclusivo.
I laurendi arrabattano tesi alla meno peggio, ricorrendo a biblioteche fuori sede o supplendo con l'online e i prestiti. Lo stato delle sedi è, naturalmente, molto variabile ma in linea con l'edilizia pubblica italiana, ma la manutenzione è, come in generale per il patrimonio pubblico, carente. Le tasse, è vero, non sono particolarmente alte ma i servizi complementari (residenze, borse di studio, assistenza ai disabili, aule studio, etc.), al netto della formazione di un titolo di laurea che regge, e piuttosto bene, il confronto all'estero, non sono esaltanti e spesso hanno punte critiche e palesi irrazionalità, dovute anche al nostro Welfare State che, come noto, funziona al rovescio a causa di evasione, lavoro nero, dichiarazioni mendaci, favoritismi.
È noto peraltro che un meccanismo squilibrato (oggi in parte riequilibrato, se non erro) ha portato molte risorse dagli Atenei del Centro-Sud a quelli del Centro-Nord, impoverendo la parte meridionale del paese di docenti, studenti e corsi di laurea per lo più specialistici, che insieme a tutto il post-laurea, dovrebbero accompagnare la transizione dallo studio al lavoro dei giovani.
La riforma degli ordinamenti didattici è stata fallimentare, non discussa con la società italiana e il mondo produttivo e priva di sbocchi occupazionali dedicati, salvo rare eccezioni. La moltiplicazione dei corsi di laurea, colpevolmente incentivata per ragioni corporative dall'Università italiana (e oggi in buona parte riassorbita), ha alla lunga danneggiato la qualità della formazione.
Il meccanismo del finanziamento tarato sugli studenti, lungi da una cultura dei risultato, ha portato (con altri fattori) a una concorrenza al ribasso per il conferimento di un titolo che pure avrebbe valore legale, e la situazione si è aggravata con la comparsa di nuovi Atenei (telematici e non), più o meno rispettabili.
Talora sono perfino saltate le propedeuticità tra gli insegnamenti, che è come sovvertire la logica, e lo slalom tra corsi di laurea o atenei è diventato l'attività sportiva in assoluto più praticato dagli studenti. Il percepibile, anzi netto, abbassamento della qualità della preparazione, favorita anche da testi più nozionistici e rigidi limiti quantitativi, non ha prodotto però in modo significativo né più laureati (la critica europea, a cui si è risposto abbassando l'asticella), né migliori laureati (tutt'altro), né laureati in tempi più rapidi.
A quest'ultimo riguardo, che era fondamentale all'inizio del processo "riformatore", il risparmio di pochi mesi di tempo, in media, sugli anni della laurea non ha abolito masse di fuoricorso, sia pure non più oceaniche, mentre ha intaccato in modo profondo e non semplice da recuperare il basamento del pensiero critico in favore di un approccio nozionistico e spesso a-problematico, anche quando coltivato con una certa diligenza dallo studente. In epoca di feroce antipolitica e fake news, dovrebbe preoccupare, se non inquietare, che lo sganciamento dall'attualità politica e culturale di gran parte degli studenti non è compensato, in prospettiva, almeno dalla dotazione di strumenti concettuali per appropriarsi delle chiavi di comprensione dei processi in corso o delle trasformazioni delle discipline e della società.
Dell'emigrazione di un numero enorme di giovani ogni anno, per parte significativa laureati, è tema troppo risaputo, anche nei costi economici e sociali, per dire qui altro.
Di fronte a questa situazione la protesta dei docenti universitari impone una decisione che vada oltre le retoriche e, direi, le stucchevoli precisazioni. E che non esclude, naturalmente, anche un impietoso esame di coscienza. Ma non c'è dubbio che è la politica la maggiore responsabile di questo stato, tra ristrettezze di bilancio, incertezza normative e di modelli.
Se si è convinti che l'università sia la spina dorsale della società, luogo di creazione di classi dirigenti e di riequilibrio delle opportunità, sede di formazione delle soluzioni e idee più innovative e utili per una società più giusta, prospera, coesa, competitiva (gli obiettivi dell'Unione europea, incidentalmente), allora bisogna cambiare radicalmente strada. Con segnali e parole forti e non equivoche, seguite immediatamente da atti concreti conseguenti. L'impegno dei governi, in particolare degli ultimi governi, non è mancato su altri versanti, alcuni certamente contigui e meritevoli. Il finanziamento del livelli di istruzioni primario oggi è buono e in linea con gli standard europei, quello secondario accettabile. Ma quello universitario è drammaticamente insufficiente.
Bisogna tornare a investire risorse pubbliche, se ci si crede. Altrimenti avere il coraggio di chiudere tutto, completando la privatizzazione strisciante (nelle logiche, innanzitutto) e la "liceizzazione" (con tutto il rispetto, ovviamente) delle università e prepararsi, con coerenza, a pagare il conto per le future generazioni. Anzi annunciarlo da ora. Una via di mezzo non è possibile.
I docenti universitari hanno mostrato sempre grande senso di responsabilità e conoscono alcuni privilegi (dovremmo dire, prerogative) connessi alla propria funzione pubblica. Sanno bene che il loro disagio non è lo stato di bisogno, spesso dolente, di tanti italiani, indigenti o in difficoltà. Ma sanno anche che è frutto di una situazione grave e che è a rischio il futuro del paese, come paese prospero e ricco di ingegni. Il legislatore gode di discrezionalità politica, nei limiti della Costituzione, ma il modo in cui tratterà l'Università italiana darà l'indice della serietà con cui intende affrontare la questione del declino del paese, che va ben oltre il ciclo economico. Scorciatoie non ve ne sono, come dimostrano i casi più virtuosi a partire dalla Germania. Rilanciare l'università con profusione di mezzi e idee chiare è un oggettivo interesse pubblico.
p.s mentre questo pezzo era pronto è intervenuta la notizia dell'ennesima indagine sui concorsi universitari. Ogni correttivo ben ponderato è benaccetto. Paventiamo, tuttavia, il rischio che il tutto si risolva in un'ulteriore punizione verso l'università, con nuove soluzioni inutili e/o irrazionali, senza peraltro affrontare i tanti problemi cui abbiamo fatto cenno, dipendenti in massima parte da carenze delle politica, che non fanno che alimentare zone grigie e fenomeni patologici.