L’università di pochi e le “barricate” che nessuno alza
C’è chi è convinto che quella della competizione sia la strada per migliorare le nostre università. Il tutto senza nessuna preoccupazione per il fatto che si sta procedendo in questo modo verso la distruzione del sistema universitario del Mezzogiorno
di Stefano Semplici
C’è chi è convinto che quella della competizione sia la strada per migliorare le nostre università. Il tutto senza nessuna preoccupazione per il fatto che si sta procedendo in questo modo verso la distruzione del sistema universitario del Mezzogiorno. La percentuale degli immatricolati nelle università del Sud sul totale nazionale è scesa in dieci anni di circa 5 punti, che sono stati guadagnati dalle università del Nord. Va bene così o c’è qualcosa di cui dovremmo preoccuparci? Per me, soprattutto guardando alle condizioni nelle quali versano le politiche per il diritto allo studio, non va bene affatto e vorrei che a un tema come questo si dedicasse la stessa attenzione che è toccata (giustamente) all’emendamento Meloni.
La reazione al tentativo di introdurre nei concorsi pubblici il superamento «del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso» e la possibilità di valutarlo «in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti» ha costretto il governo alla ritirata. La soddisfazione dei tanti e diversi attori della vita universitaria che si sono ritrovati uniti nell’opposizione all’emendamento proposto dall’onorevole Marco Meloni è a mio avviso una dimostrazione straordinariamente efficace delle ragioni per le quali, in democrazia e più in generale in politica, c’è chi vince e c’è chi perde. Vince chi ha chiarezza degli obiettivi, consapevolezza dei mezzi necessari per conseguirli e capacità di creare il consenso (o almeno la diffusa indifferenza) indispensabile per realizzare le riforme che servono ad avviare e sostenere l’intero processo. Perde chi non è in grado di individuare le priorità o non riesce comunque ad aggredire le cause profonde delle trasformazioni in atto, rischiando così di piantare le bandiere di effimere vittorie davanti a una porta della quale il nemico può tranquillamente disinteressarsi, perché sta passando da un’altra per entrare in città e saccheggiarla.
L’emendamento, se lo si legge per intero e senza pregiudizi, enunciava un’esigenza di equità difficilmente contestabile: nel momento in cui riconosciamo che non tutte le università e corsi di laurea applicano gli stessi criteri di valutazione (ed è davvero arduo negarlo), diventa inevitabile concludere che per alcuni potenziali candidati il fatto di aver frequentato un ateneo più “difficile” può costituire di fatto una penalizzazione, se non una vera e propria discriminazione. Ma per eliminare questo rischio e lasciare che siano prove uguali per tutti a decidere chi merita di più è sufficiente eliminare il riferimento al voto minimo. I concorsi servono esattamente a questo. Non c’è bisogno di utilizzare un’espressione obiettivamente (volutamente?) ambigua, che potrebbe anche essere interpretata come autorizzazione a “pesare” diversamente – a causa dei non meglio identificati «fattori inerenti all’istituzione» – il valore del voto tout court e dell’istituzione stessa. Insomma: per evitare l’esclusione immeritata di un laureato con 98 della sede X non possiamo stabilire a priori che un 110 e lode della sede Y, riconosciuta più “generosa” secondo criteri tutti da verificare, vale meno. E questo, naturalmente, è il vero punto del contendere. È giusto non solo constatare che non tutti gli atenei sono uguali (per i voti, ma soprattutto per la preparazione che garantiscono), ma anche promuovere questa disuguaglianza con opportuni incentivi e istituzionalizzarla in veri e propri campionati, classifiche, liste di serie A e di serie B? Ed è giusto sostenere che questo è il doveroso, inevitabile esito di una valutazione rigorosa, che i “baroni” che tengono in ostaggio l’università non vogliono per proteggere i feudi della loro inoperosa, parassitaria prepotenza?
Questa è la questione culturale e politica che le barricate alzate contro l’emendamento Meloni lasciano purtroppo intatta. La protesta di massa è stata accolta e dunque sul resto si va avanti, perché qui la protesta rimane quella di pochi, che sono del tutto ininfluenti e alla fine perfino un po’ patetici. Peccato che sia proprio questo “resto”, fatto di provvedimenti che non sono tweet o slogan ad effetto e richiedono dunque un maggiore sforzo di attenzione, ad incidere in profondità sugli assetti istituzionali e i comportamenti individuali. Gli oppositori, appagati, smontano le barricate. Speriamo che non tocchi anche a loro il destino del protagonista di uno spot pubblicitario, che esce di casa soddisfatto dopo aver raddrizzato un quadretto che aveva trovato storto. Ma fuori ci sono le macerie di una guerra della quale non si era accorto.
L’obiettivo di arrivare ad un sistema formalmente differenziato di università, con pochissimi atenei di qualità dove si svolge ricerca di alto livello e si concentrano i professori migliori, individuati attraverso una competizione durissima nella quale sono considerati esclusivamente i “prodotti” appunto della ricerca e ci si può anche disinteressare della didattica, è stato più volte enunciato, giustificandolo con la constatazione che “tanto è già così”. Sono stati forniti e potenziati tutti i mezzi utili a raggiungere lo scopo, a partire dai tagli “rafforzati” alle università risultate meno competitive nel grande campionato della Valutazione della Qualità della Ricerca (si dovrebbe parlare di “fondi premiali” ai più virtuosi, ma questo avrebbe un senso solo se si trattasse di fondi aggiuntivi e non di una fetta della torta sempre più piccola del Fondo di Finanziamento Ordinario). Il tutto senza nessuna preoccupazione per il fatto che si sta procedendo in questo modo verso la distruzione del sistema universitario del Mezzogiorno, come se la responsabilità della politica non fosse quella di utilizzare la valutazione per garantire la qualità diffusa del sapere, oltre che le condizioni per far crescere le eccellenze. Il consenso dell’opinione pubblica non è stato difficile da ottenere, integrando opportunamente il vocabolario dell’autonomia e del merito con l’aneddotica sempre abbondante delle malefatte dei professori e arruolando senz’altro i critici di questa valutazione (che non sono critici dell’idea di valutazione in quanto tale) fra i difensori di un insostenibile statu quo. Per quanto mi riguarda, mi riconosco su questo punto nella posizione riassunta dal Governatore della Banca d’Italia nelle Considerazioni finali lette all’Assemblea ordinaria del 26 maggio: quando il tema è l’istruzione, i risultati di «una valutazione sistematica e approfondita dei servizi offerti e delle conoscenze acquisite» devono essere utilizzati per «migliorare i programmi di insegnamento, accrescerne la qualità e indirizzare le risorse dove sono più necessarie».
Ho il massimo rispetto per coloro che sono davvero convinti che quella della competizione, di questa competizione, sia la strada per migliorare le nostre università e conosco la solidità di alcuni dei loro argomenti. E in fondo li invidio, perché a loro, in questo momento, tocca di comandare, mentre io subisco. Faccio fatica a capire perché chi non vuole che ciò accada continui a mobilitarsi più per evitare di dare alle cose il nome che corrisponde alla loro sostanza che per cambiare quest’ultima. E vorrei proporre a tutti, fra tante, una sfida concreta. Secondo gli ultimi dati disponibili, la percentuale degli immatricolati nelle università del Sud sul totale nazionale è scesa in dieci anni di circa 5 punti, che sono stati guadagnati dalle università del Nord. Va bene così o c’è qualcosa di cui dovremmo preoccuparci? Per me, soprattutto guardando alle condizioni nelle quali versano le politiche per il diritto allo studio, non va bene affatto e vorrei che a un tema come questo si dedicasse la stessa attenzione che è toccata (giustamente) all’emendamento Meloni. Avrei anche un suggerimento per il governo. Sarebbe bello se qualche consigliere in più, a partire da quelli economici del Presidente del Consiglio, venisse dalle università del Sud. Giusto per dare un segnale, per sentirci tutti più coinvolti nello sforzo di far ripartire il sapere per far ripartire il paese. Nelle sedi del Nord, a partire da Milano, ci sono tanti colleghi molto bravi. L’Italia delle università, per fortuna e forse ancora per poco, è più grande.
Articolo già apparso su Huffington Post