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L’italiano straniero in patria

Tullio De Mauro, Accademico dei Lincei

10/05/2013
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Il Messaggero

La presenza di immigrati stranieri in Italia ci ha reso largamente consapevoli del fatto che ospitiamo diverse lingue portate tra noi da milioni di immigrati che vengono da Paesi europei (quasi due milioni e mezzo), dall’Africa (quasi un milione) e dagli altri continenti. Rischia di sembrarci un fatto nuovo, ma nuovo non è. Come per la letteratura ricordava un grande filologo, Gianfranco Contini, il multilinguismo nativo, ben anteriore alle recenti ondate migratorie, segna profondamente il volto storico del nostro Paese. A patto però che ci si intenda su che cosa vogliamo dire con la parola lingua.
Nel 1999 anche l’Italia, come tanti altri paesi del mondo già avevano fatto, si è data una legge per tutelare le “lingue meno diffuse” o “lingue di minoranza”, cioè idiomi diversi dalla lingua nazionale ma presenti tradizionalmente nel paese, La legge ha scelto di tacere delle parlate dei rom e ne enumera solo tredici, dal nord al sud sono occitanico, francoprovenzale, francese, tedesco walzer, tedesco sudtirolese, parlate ladine, friulano, sloveno, croato, albanese d’Italia, neogreco, catalano e parlate sarde. Nessun altro paese dell’Unione europea ospita un numero così elevato di lingue minoritarie.
Ma questo non esaurisce il quadro del multilinguismo storico italiano. Come ha ricordato anni fa proprio in questo giornale Raffaele Simone, alla lingua nazionale e alle lingue riconosciute come tali dalla legge occorre aggiungere la folla degli idiomi che da secoli, dal Cinquecento, chiamiamo dialetti in opposizione alla lingua. L’opposizione ha basi sociologiche, ma non linguistiche. I dialetti, dal veneziano o piemontese al napoletano o siciliano, sotto la lente del linguista o nella coscienza di chi ne fa uso, sono sistemi linguistici del tutto analoghi a quelli che consideriamo lingue. Sono, come qualcuno ha detto, lingue senza un passaporto e un esercito o una flotta, ma di struttura pari alle lingue.
Quelli italiani, derivati dal latino come il fiorentino e l’italiano, hanno avuto minor fortuna nella vita ufficiale e letteraria. Anch’essi tuttavia sono ricchi di straordinarie tradizioni letterarie: opere come i sonetti romaneschi di Gioachino Belli appartengono alla Weltliteratur, capolavori mondiali.
Dante, descrivendo l’Italia linguistica del suo tempo, distingueva “almeno quattordici” gruppi di parlate, oggi, a seconda dei criteri, tendiamo a distinguere sedici o diciassette grandi raggruppamenti dialettali. È di nuovo un primato: nessun paese europeo ha, accanto alla lingua nazionale, un numero così elevato di dialetti. E in nessun paese europeo negli ultimi secoli i dialetti hanno avuto un uso così massiccio come in Italia.
Si stima che ancora negli anni cinquanta del Novecento quasi due terzi della popolazione avesse difficoltà a parlare in italiano e parlasse esclusivamente soltanto uno dei dialetti. Il multilinguismo nativo era allora un fattore imponente di dislivello linguistico e culturale tra chi sapeva parlare a pieno titolo l’italiano, magari alternandolo al proprio dialetto, e chi sapeva parlare soltanto il proprio dialetto.

TELEVISIONE
Oggi non è più così. Un enorme lavoro ha fatto la scuola: nel 1950 il 60% degli adulti era privo di licenza elementare (anche questo era un primato europeo, non lieto) e avevamo in media tre anni di scuola a testa, che era in media l’indice dei paesi meno sviluppati, mentre altrove lo stesso indice era di sei, sette anni di scuola a testa. Oggi, grazie alle fatiche dei nostri mal ripagati insegnanti, abbiamo più di undici anni di scuola a testa, all’incirca come gli altri paesi sviluppati (i paesi sottosviluppati hanno invece oggi un indice di circa sei anni). Inoltre la grande migrazione dalle campagne alle città maggiori, specie del nord, ha messo a contatto milioni di persone di diverso dialetto nativo, costretti, per dir così, a passare all’uso della lingua comune.
Molto, come potè mostrarsi sul campo, fece tra anni cinquanta e sessanta l’ascolto della tv. Oggi la più recente indagine dell’Istat ci dice che il 94% della popolazione sa parlare l’italiano, anche se molti, il 60%, sanno usare ancora un dialetto, ma non sono più ingabbiati in esso.

LA PADRONANZA
I dialetti, dunque, non sono più un fattore di dislivello. Ma i dislivelli non sono scomparsi. Sono mascherati dal fatto che parliamo quasi tutti la stessa lingua, ma la parliamo con livelli spesso troppo modesti di padronanza. Usciti dalle scuole e dalle università magari anche con buona preparazione, gli stili di vita troppo spesso ci allontanano dal continuare a dedicare impegno alla vita intellettuale, all’informazione scritta, alla lettura.
Poco più di un terzo della popolazione legge abitualmente giornali o libri.
Due recenti indagini internazionali danno cifre impietose: a furia di non leggere mai il 5% degli adulti non decifra lettere e cifre, il 33% li decifra, ma compita a fatica una breve frase e si smarrisce dinanzi a frasi più complesse o a un semplice calcolo. Soltanto il 20% degli adulti in età di lavoro avrebbe gli strumenti di lettura e calcolo “minimi necessari” (dice l’indagine più recente) per orientarsi nella vita di una società contemporanea.
Degli altri paesi studiati solo uno, la Sierra Leone, ha risultati così sconcertanti e negativi. In troppi siamo "stranieri in patria”. In condizione perfino peggiore di molti recenti immigrati, siamo culturalmente stranieri all’uso pieno e appropriato della nostra lingua, stranieri quindi a scelte consapevoli del nostro vivere comune.


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