L'Italia e i fondi europei per la ricerca
Ora che il trattato di Lisbona (sottoscritto anche dall’Italia) indica come obiettivo un finanziamento della ricerca all’1,8% del PIL e si profila il traguardo di “Europa 2020” che vorrebbe portare questa quota al 3% non è più pensabile di mantenere il nostro misero 1,2% e rimanere competitivi
Andrea Belleli
Ieri ho partecipato ad un incontro organizzato dalla FLC-CGIL presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal titolo “ANVUR e politiche di sistema”. L’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) è l’agenzia di istituzione e nomina governativa che sta valutando su mandato dell’ex Ministro Gelmini le Università e gli Enti Pubblici di Ricerca. Erano presenti all’incontro varie personalità, tra le quali il Ministro dell’Università e della Ricerca, Prof. Francesco Profumo, il quale nel suo intervento ha sottolineato alcune criticità del sistema della ricerca in italia ed ha ricordato come l’Italia riceva dall’Europa sotto forma di finanziamenti per la ricerca circa la metà di quello che versa. Il dato, peraltro noto da tempo e poco connesso con il tema dell’incontro, è per certi versi preoccupante: in pratica l’Italia, attraverso la Comunità Europea, finanzia la ricerca di altri paesi in misura pari o maggiore alla propria.
Il (tenue) collegamento tra il dato citato dal Ministro e la valutazione delle istituzioni deputate alla ricerca sarebbe il seguente: la valutazione ANVUR ha lo scopo di rendere più competitiva la ricerca italiana, spronando la competizione tra le istituzioni. La ricerca italiana irrobustita da questa iniezione di competitività interna diventerebbe più competitiva anche nei confronti delle istituzioni degli altri paesi d’Europa e riuscirebbe a strappare maggiori finanziamenti.
E’ un ragionamento semplicistico e basato sul mascheramento dei dati reali (che per il 7° programma quadro della Comunità Europea, quello attualmente in corso, possono essere consultati su questo sito alla voce "statistics"). Tra le varie cose che si potrebbero dire in merito ne cito una sola: l’Italia ha la metà degli addetti alla ricerca della Francia e un terzo di quelli della Germania in rapporto alla popolazione (dati della World Bank), come ho già avuto occasione di riferire in un post precedente.
Se si tiene conto di questo punto, il dato del Ministro Profumo assume un preciso significato: l’Italia finanzia la ricerca Europea in proporzione al PIL e riceve indietro finanziamenti dall’Europa in proporzione al numero di ricercatori che ha. Per riottenere il 100% di quanto l’Italia versa all’Europa, ciascun ricercatore italiano dovrebbe ottenere in media il doppio dei finanziamenti che ricevono i suoi colleghi francesi o tedeschi. La situazione reale è peggiore di come esce dalle nude cifre: poiché la grande maggioranza degli addetti alla ricerca in tutti i paesi europei lavora nelle Università, averne la metà degli altri in rapporto alla popolazione implica che i ricercatori italiani siano anche più gravati di obblighi didattici dei loro colleghi stranieri ed abbiano quindi meno tempo da dedicare alla ricerca.
E’ stato detto, giustamente, che per l’Italia non era un errore entrare in Europa, era un errore farlo pensando di poter mantenere i nostri tradizionali imbroglietti: ora che il trattato di Lisbona (sottoscritto anche dall’Italia) indica come obiettivo un finanziamento della ricerca all’1,8% del PIL e si profila il traguardo di “Europa 2020” che vorrebbe portare questa quota al 3% non è più pensabile di mantenere il nostro misero 1,2% e rimanere competitivi: i nostri vicini firmano gli accordi pensando di mantenerli, noi di eluderli.
Poi il Ministro dell’Università e della ricerca di turno, ad accordo firmato e poi disatteso, si lamenta che l’Italia non riceve abbastanza finanziamenti europei.