L'iPad con i manuali fai-da-te I rischi del liceo senza libri
I testi saranno prodotti assieme da docenti e ragazzi
di PAOLO DI STEFANO
L' Istituto Cobianchi di Verbania annuncia che da settembre partirà un progetto iPad che coinvolgerà 54 studenti di due terze del liceo di scienze umane e del liceo linguistico. Non è il primo e non sarà l'ultimo esperimento del genere, ma si presenta in modo del tutto originale rispetto agli altri, per la sua radicalità. Il progetto prevede, per l'intero triennio (dunque per alunni dai sedici ai diciotto anni), la sostituzione dei manuali di carta con il tablet Apple di ultima generazione. Con almeno un paio di vantaggi evidenti: gli zaini saranno più leggeri e i costi delle famiglie si ridurranno, poiché dai circa 700 euro sborsati nel triennio per i libri si passa a 400 euro, che è il prezzo dell'iPad.
Fatta salva la schiena dei pargoli, il calcolo economico sarà attendibile? Sì, perché i materiali digitali non verranno acquistati ma saranno creati dagli insegnanti in collaborazione con gli alunni: ed è qui l'originalità (e il rischio maggiore) dell'iniziativa. Cioè basterà comperare la tavoletta digitale, perché i software saranno autoprodotti da docenti e discenti in una sorta di scambio «creativo» che ha come scopo la produzione e l'apprendimento di contenuti e di conoscenza: dal produttore al consumatore, è proprio il caso di dirlo. Prima considerazione: l'editoria, sia essa tradizionale o no, verrà del tutto superata. Secondo aspetto: viene a cadere con il tramonto del libro cartaceo anche il rapporto gerarchico tradizionale che pone l'insegnante in cattedra a distribuire sapere per gli allievi in ascolto sui banchi. Una relazione paritaria, come neanche l'utopia sessantottina osava auspicare. Terzo punto nevralgico: se, come pare, non verrà meno la valutazione finale ma cambierà solo (solo?) il metodo, l'eventuale responsabilità di aver approntato strumenti sbagliati, inutili, incompleti, ricadrà sulle spalle degli studenti? (Senza dimenticare che le terze sperimentali dovranno raggiungere gli stessi obiettivi didattici delle classi parallele che studieranno sui soliti manuali). Insomma, una bella sfida. L'assistenza degli esperti dell'Università della Bicocca dovrà servire soprattutto a «monitorare» le capacità dei docenti-pionieri.
Limitandoci alla notizia nuda e cruda, se ne può esserne entusiasti? Moderatamente sì, moderatamente no. Senza allinearsi con i moralisti apocalittici, e senza unirsi all'euforia acritica dei filotecnologici aprioristici, il progetto dell'Istituto Cobianchi si fonda sulla piena consapevolezza che l'iPad non è un libro e non è neppure cento o mille libri: è anche tantissime altre cose, Internet compreso. Dunque? Il pregio della versatilità (della multimedialità) è indubbio se valutato in funzione delle attitudini dei nativi digitali. Ma i nostalgici, irriducibili testardi, obietteranno che il libro tradizionalmente inteso ha (aveva?) un vantaggio impagabile: esclude (escludeva) ogni distrazione, dunque favoriva la concentrazione, un tipo di apprendimento solitario e cognitivamente più efficace. Replica ovvia: quella dei biblionostalgici è una posizione di evidente retroguardia, se si pensa che — mentre noi stiamo qui a discutere in teoria se la nuova didattica è un bene o un male — la mente ai tempi del web, la mente dei cosiddetti nuovi barbari è già molto cambiata rispetto a quella (libresca) dei loro padri e dei loro nonni.
Raffaele Simone, autorevole linguista e studioso del nuovo ecosistema culturale, ha pubblicato di recente un saggio (cartaceo), Presi nella rete, in cui dimostra come la metamorfosi dell'ambiente comporti in definitiva una rivoluzione nella gerarchia degli organi di senso: la mediasfera — osserva — ha alterato alla radice i modelli antropologici novecenteschi, «dando luogo a un paradigma del tutto diverso per quanto riguarda l'organizzazione della conoscenza». Simone non stenta a definire l'esplosione incontrollata di gadget digitali «una delle più straordinarie manifestazioni di follia (a volte anche di idiozia) collettiva che si siano mai avute». Aggiungendo però che «non tutto il male vien per nuocere». La didattica deve resistere a questo «male» diffuso o deve farsene carico coraggiosamente? Riuscirà la scuola a far sì che il «male» giovi.