L’Incontenibile vanità dei Rettori Ministri
L’ultimo caso è quello di Stefania Giannini, terzo rettore consecutivo, dopo Carrozza e Profumo, ad assidersi sul trono del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Gian Arturo FerrRI
Il bello dei rettori entrati (saliti? discesi?) in politica è quella loro arietta non già, come si potrebbe presumere, da primi della classe (antiquata, antiquatissima, per carità!), ma da qualcosa di mezzo tra Candide e la Vispa Teresa. Comune peraltro anche ad altri personaggi di simile parabola, come ad esempio il sindaco di Roma, Ignazio Marino. L’arietta di chi dice: guardate bene che io con i politici — sottinteso: quei lazzaroni, quei farabutti — non ho niente a che spartire. Guardate che sono allibito quanto voi e anzi ve ne racconto io una nuova. Guardate che io mi occupo non dei pasticci che ho ereditato e che non sono miei, ma di scrutare nuovi orizzonti e, soprattutto, di farvi vedere un nuovo stile. Direttamente impersonato, non a caso, da me medesimo. Se i rettori finiranno all’Inferno, dove è assai probabile che finiscano, sarà per la loro incommensurabile, incontenibile, vanità.
L’ultimo caso è quello di Stefania Giannini, terzo rettore consecutivo, dopo Carrozza e Profumo, ad assidersi sul trono del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Trono in quanto da lì si governa all’incirca un milione di dipendenti e si spende, per il funzionamento, più di ogni altro ministero.
Né il Rettore Primo, Francesco Profumo, né il Rettore Secondo, Maria Chiara Carrozza, hanno lasciato esaltante o incancellabile memoria di sé medesimi. Profumo, un ingegnere, sembrava uomo con i piedi per terra. Anche se a insospettire avrebbe dovuto essere il fatto che il governo Monti in cui militava era quello che vantava il più alto tasso di rettori nella storia non già d’Italia, ma di tutti i tempi e di tutti i paesi. Comunque sia, di Profumo si ricorda solo la graziosa idea del campionato nazionale dei primi della classe, teso a individuare e incoronare il Super Primissimo di Tutte le Classi. Una cosa tra Dickens e De Amicis, quanto mai adatta al terzo millennio. Della Carrozza viceversa, un bioingegnere di cui si celebravano le virtù scientifiche e la propensione all’eccellenza, non si ricorda nulla, dato che se non proprio nulla, certo assai poco deve avere fatto.
Ammaestrato da questi precedenti, il Rettore Terzo, la Giannini, di natura sua una glottologa, appare fermamente intenzionata a lasciare duratura traccia di sé. Ha dunque sdegnosamente smentito che i precari della scuola siano mezzo milione e, ispirandosi al nominalismo e sfidando l’aritmetica, ne ha determinato la consistenza in «poco meno di centosettantamila». Salvo aggiungere che «ci sono anche 460 mila in graduatorie d’istituto, 10 mila abilitati con Tfa, 70 mila abilitati con Pas, 55 mila diplomati magistrali, e 40 mila idonei dei vecchi concorsi». Un po’ criptico, ma non male.
Non contenta della performance numerica, la Giannini si è poi cimentata in un paio di occasioni con il pensiero vero e proprio, come quando, parlando degli esami di accesso alle scuole di specializzazione «mi piacerebbe — ha osservato — che mirassero a misurare principalmente le competenze e l’attitudine relative alla specializzazione futura». Perché, vien fatto di chiedere, che cos’altro dovrebbero misurare? E, soprattutto, contestando la sua collega Madia che aveva parlato di prepensionamenti per far spazio ai giovani, ha vibratamente e insieme pensosamente asserito «non amo il collegamento tra chi va a casa e chi entra. Un sistema sano non manda a casa gli anziani per far entrare i giovani. È necessaria un’alternanza costante». Precetto, quest’ultimo, di cui far tesoro (come di quello sulla necessità della maglia di lana e altri similari). Ma che forse non è di grande aiuto nelle presenti circostanze, quando di ingresso di giovani son vent’anni che non si parla.
Il manto che avvolge l’avvento in politica dei rettori (come per altro, ma simile verso degli alti dirigenti della Banca d’Italia) è la competenza, la probità, la dedizione all’interesse nazionale e non di parte. La sostanza è una sottile, ma tenace idea corporativa. L’idea, antica, che la democrazia è debole, soprattutto in Italia, e che le sue piaghe devono essere medicate da mani delicate ed esperte, non lasciate in balia dei tristi amori dell’elettorato. Solo i corpi organizzati — l’accademia, l’alta burocrazia, gli istituti finanziari — possono garantire e proteggere l’interesse comune. In cambio, naturalmente, del riconoscimento di una sorta di patronato perenne, di un diritto inalienabile. Il risultato, la realtà che abbiamo sotto gli occhi, è la pasta collosa e burbanzosa che avvolge la dimensione pubblica e maschera la sua sostanziale paralisi. Meglio, molto meglio, la politica.