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ItaliaOggi-Leonardo da Vinci non abita

Dai dati della George Mason university di Washington il quadro degli investimenti in innovazione. Leonardo da Vinci non abita più qui È l'Irlanda la nazione più creativa al mo...

15/04/2005
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ItaliaOggi

Dai dati della George Mason university di Washington il quadro degli investimenti in innovazione.

Leonardo da Vinci non abita più qui

È l'Irlanda la nazione più creativa al mondo. Italia 34sima

Leonardo da Vinci, icona del genio italico, ha oggi altre patrie. Come indicano i dati elaborati sulla scorta della teorie delle tre T (talento, tecnologia, tolleranza) di Richard Florida, docente alla George Mason university di Washington D.C. Secondo questo modello (si vedano le tabelle in pagina), infatti, il paese che in Europa ha più talento (ovvero capitale umano + classe creativa) è la Finlandia, mentre l'Italia è al 13° posto.
Ma se si considera solo la consistenza della classe creativa (cioè artisti e comunicatori, ma anche manager, insegnanti, avvocati e altri professionisti che nelle loro occupazioni hanno spesso bisogno di trovare soluzioni non standardizzate) è l'Irlanda che a livello mondiale detiene il primato, con una percentuale del 33,47% sul totale della forza lavoro.

L'Italia in questa classifica è al 34° posto con una percentuale del 13,59%, anche se in valori assoluti al primo posto ci sono gli Usa.

Ma che il sistema nazionale sia ostile nei confronti di chi rompe gli schemi e refrattario ad accogliere novità sostanziali è dimostrato dal tasso negativo dell'import-export di idee. Che periodicamente deve fare i conti con le polemiche sulla 'fuga dei cervelli' e che si traduce in un saldo passivo (nel 2003 per 608 milioni di euro, secondo il dato elaborato dalla Fiata, la federazione del terziario avanzato) della bilancia tecnologica dei pagamenti, che comprende, oltre ai settori di ricerca e sviluppo, acquisti, cessioni e diritti di sfruttamento di brevetti e invenzioni.

Ora si deve anche considerare che nel nostro paese è perdurante il pregiudizio che creativi siano solo gli artisti e mai la donna delle pulizie o l'idraulico, quando impostano il loro solito lavoro in modo nuovo e più redditizio.

Ma la zavorra che grava sul paese, che pure con la corrente legislatura ha inaugurato il ministero per l'innovazione, retto dal tecnico Luciano Stanca, consiste nel fatto che, se resta basso l'investimento pubblico in ricerca, ancor più basso è quello delle imprese private, la cui media nazionale si colloca al di sotto dell'1%.

Naturalmente non mancano settori e realtà imprenditoriali competitivi sul mercato mondiale, in forza di prodotti molto innovativi e di elevati investimenti in ricerca e sviluppo: dalla Finmeccanica, che ha recentemente vinto la commessa per gli elicotteri della flotta presidenziale degli Stati Uniti, a piccole e medie imprese come la Nuova Pansac di Milano che produce la 'plastica che respira'.

Non meno significativo è che le Sylicon Valley italiane, o qualcosa di simile a ciò che è stato il prototipo di uno sviluppo intellettuale e tecnologico sulla cui base è poi sorta una miriade di industrie hi-tech, siano nate nel Sud d'Italia.

A Catania, incubato dalla Stm microelectronics di Pasquale Pistorio, ora responsabile in Confindustria per l'innovazione, è cresciuto un importante polo informatico, mentre a Lecce se ne è consolidato uno sulle nanotecnologie.

Tuttavia il nostro paese continua a scontare un marcato ritardo nel campo del raccordo fra università e imprese: i campus o poli o parchi tecnologici, che negli ultimi trent'anni sono stati decisivi per lo sviluppo e la capacità di competere sul mercato mondiale dei sistemi industriali degli Stati Uniti e, in Europa, della Francia, da noi sono stati, con rare eccezioni, delle occasioni mancate sul piano di un forte e significativo start up imprenditoriale; oppure dei pretesti per creare dei carrozzoni buoni per alimentare il sottopotere politico e accademico.

Insomma, di incubatori di imprese ma anche di progetti e di idee molto si è parlato e si parla, soprattutto a livello di amministrazioni locali, ma le poche esperienze di successo e adeguatamente finanziate sono private.

Come, per esempio, la Creative academy, scuola post laurea di design e comunicazione, creata l'anno scorso dalla Richemont, il colosso del lusso che controlla fra gli altri i marchi Cartier, Van Cleef ' Arpels, Piaget, Montblanc e che vi investirà 1 milione di euro l'anno.

Ma se resta sempre un'impresa (difficile) convincere che gli investimenti in creatività possono essere ottimi affari, è indubbio che negli ultimi anni l'attenzione per l'innovazione sia cresciuta sensibilmente. Soprattutto per effetto dello tsunami industriale che è partito dal Sudest asiatico, soprattutto dalla Cina, e che, per opinione unanime anche dei produttori nazionali, può essere arginato solo alzando la qualità e l'innovazione dei prodotti.

Cioè attraverso lo stesso processo che può mettere al riparo il made in Italy dall'aggressione di falsificatori e contraffattori, che però, a scanso di equivoci e troppo facili polemiche, sono molto numerosi proprio in Italia.

Dal momento che il nostro paese è al terzo posto mondiale con la sua 'industria dei falsi', a riprova di una maggiore attitudine a copiare che a creare, alimentata anche da una scarsa opera di sensibilizzazione sui danni della pirateria, che parta dalla scuola ed educhi alla valorizzazione e al rispetto della proprietà intellettuale. Cosa questa che, in forma anche di fumetti e cartoons, avviene invece, fin dalla scuola elementare, in Giappone, che è il paese che nella prima fase di grandioso sviluppo industriale postbellico ha elevato ad arte la capacità di 'copiare' le idee e i prodotti di successo altrui.

Tuttavia il vero problema dell'Italia non è tanto la scarsità di innovazioni e invenzioni quanto la loro protezione sui mercati internazionali.

Come ribadisce Luigi Boggio, senior partner dello Studio Torta di Torino, una delle maggiori strutture di consulenza in proprietà industriale, 'è la cultura del brevetto che dà forza alle nuove ideeÉ ma nel nostro paese sono poche le aziende che utilizzano gli strumenti che offre la legislazione nazionale e internazionale per brevettare le invenzioni e proteggere i know-how aziendali, e così difenderli da contraffazioni o indebite sottrazioni'.

In altre parole, avere buone idee non basta, bisogna brevettarle. Ma per farlo occorre avere esperienza internazionale e consapevolezza del valore dei cosiddetti intangibile assets, cosa che quasi sempre manca alle aziende di piccole dimensioni, che però rappresentano gran parte del tessuto produttivo italiano.

Ecco dunque che la sfida dei prossimi anni la si gioca, forse più che sulla capacità di innovazione di prodotto e di processo, sulla cultura che deve spingere le imprese a difendere nel tempo e sostenere, in tutti i mercati in cui operano, e non solo in quello nazionale, le idee buone e nuove.

Attualmente, infatti, si brevetta molto a livello nazionale. Secondo un censimento curato dalla Camera di commercio di Milano nel 2003 sono state depositate 59 mila domande di brevetto (relative a invenzioni vere e proprie, marchi, disegni industriali e nuovo metodi per usare tecnologie già conosciute).

Ma a livello europeo le richieste di brevetto italiane, nello stesso anno, sono state solamente 3.676. Dato questo che colloca il nostro paese al sesto posto, ma nettamente distanziati da Francia (7.431) e soprattutto Germania (22.701) che sono i due paesi di testa (nel mondo però sono in testa gli Stati Uniti d'America con 31.863).

Ma forse più significativo è considerare le domande di brevetto europeo per milione di abitanti, in modo da equiparare paesi con differente numero di popolazione e poter fare anche il conto del numero ipotetico di 'teste pensanti'.

Così conteggiando, come fa un rapporto di Eurostat riferito al 2002, in testa ci sono Svezia e Finlandia, mentre l'Italia cede altre due posizioni, confermando, appunto, come il 'tasso inventivo e innovativo' del paese sia notevolmente inferiore a quello necessario per reggere, anziché subire, le sfide della globalizzazione.


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