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Italia, la laurea breve che non c’è. Fanno (quasi) tutti il master

Fanalino di coda nell'OCSE per numero di laureati in generale, abbiamo però più diplomati nella specialistica e nel ciclo unico. Mancano i percorsi professionalizzanti

25/11/2015
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Corriere della sera

Orsola Riva

Nella marea di dati contenuti nelle 568 pagine dell’ultima edizione di «Education at a glance», la mappatura dei sistemi educativi di tutto il mondo effettuata ogni anno dall’Ocse, uno su tutti rischia di condannare l’Italia a un lento ma inarrestabile arretramento economico. Quello sulle università, in cui purtroppo restiamo molto distanti dall’obiettivo europeo per il 2020: laureare 4 giovani su 10. Solo il 42 per cento dei diplomati si iscrive all’università (peggio di noi fanno solo il Granducato del Lussemburgo - dove però molti ragazzi vanno a studiare all’estero - e il Messico), mentre il tasso di laurea atteso oggi per i 25-34enni è appena del 34% (contro il 50% della media Ocse).

Poveri di semplici «dottori» ma ricchi di master

Poveri di laureati in generale, siamo invece ricchi di laureati in possesso di un titolo equivalente al master (laurea specialistica o laurea a ciclo unico tipo medicina): la media italiana è 20% contro il 17% Ocse. I due dati non sono in contraddizione, ma strettamente collegati. Se abbiamo pochi dottori è anche perché da noi laurearsi vuol dire imbarcarsi in un percorso lungo e selettivo, mentre l’equivalente del bachelor (la cosiddetta laurea breve) esiste quasi solo sulla carta, come gradino intermedio in vista della «vera» laurea Spiega Francesco Avvisati, senior analyst presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi: «La riforma del 3 +2 purtroppo non si è tradotta nella costruzione di percorsi di laurea professionalizzanti come avrebbe dovuto. Esistono - è vero - gli Istituti tecnici superiori che però stentano a decollare (0,2% contro una media Ocse dell’11%, ndr), mentre in Francia ad esempio tutti gli informatici escono dagli Istituti universitari di tecnologia dopo un percorso di studi lungo solo due anni». Mancano insomma i quadri intermedi di cui le aziende tanto avrebbero bisogno mentre l’università, nonostante la riforma Berlinguer, sembra non aver modificato più di tanto la sua vocazione storica che è quella di selezionare la classe dirigente più che di formare figure adatte al mercato del lavoro. «Senza nulla togliere alla qualità dei nostri laureati magistrali, in un momento di stagnazione come questo - dice ancora Avvisati - l’università dovrebbe fare da polmone attivando le competenze ricercate dalle imprese».

Leggi la scheda Paese dell’Italia
Una selezione di dati e tabelle dal rapporto Education at a Glance

Università italiane poco attraenti per gli studenti stranieri

Le nostre università continuano ad attrarre pochi studenti stranieri: 16 mila in tutto (greci in testa) contro i 46 mila della Francia e i 68 mila della Germania. E si tratta di un dato sovrastimato perché noi conteggiamo anche gli immigrati che già risiedevano in Italia mentre Francia e Germania contano solo chi si è trasferito specificamente per ragioni di studio. A monte c’è il problema della barriera linguistica, anche se ormai un ateneo su 5 ha attivato almeno un programma di studi in inglese: più dei francesi (16%) ma comunque molto meno dei tedeschi (43%).

Spesa universitaria gravemente insufficiente

Disattente agli esiti lavorativi, le nostre università si rivelano insufficienti anche sul fronte delle competenze di base. Il livello medio di literacy dei nostri giovani laureati è uno dei più bassi dell’Ocse (ce la battiamo con spagnoli e irlandesi): molti studenti universitari hanno difficoltà a sintetizzare informazioni provenienti da testi lunghi e complessi. «La priorità dei nostri atenei - spiega Avvisati - resta quella di formare belle menti. Non c’è l’idea di concentrare gli sforzi per elevare le competenze medie dei ragazzi usciti dalle superiori. Naturalmente non è certo colpa solo dell’università. Purtroppo, mancano le risorse economiche e umane per elaborare una diversa didattica». La nostra spesa universitaria è l’altro dato drammatico del rapporto: essa rappresenta lo 0,9% del Pil, come in Brasile e in Indonesia. La metà del Regno Unito (1,8%) ma comunque molto meno anche di Germania e Francia (1,2% e 1,4%). La spesa per studente equivale a 10.071 dollari (PPP): circa due terzi della media Ocse.

Gli stipendi bassi dei prof

Anche la spesa pubblica per la scuola è molto bassa: il 3% del Pil contro 3,7% della media Ocse, ma i dati della rilevazione non tengono conto per ovvie ragioni della riforma della scuola approvata a luglio e del relativo investimento economico (1 miliardo quest’anno, circa 3 miliardi di euro a regime). Anche i dati di sistema andranno riletti alla luce delle nuove immissioni in ruolo, sia per quanto riguarda la proporzione docenti-studenti che per l’età media degli insegnanti che è (o almeno era) la più alta dell’Ocse: 51 anni. Se da un lato infatti la stabilizzazione di circa 100 mila prof provenienti dalle graduatorie a esaurimento non è esattamente un’iniezione di giovinezza (l’età media delle Gae è 41 anni), il prossimo concorso da 60 mila posti potrebbe dare un’ulteriore svecchiata: anche se i neolaureati resteranno esclusi da questo giro, essendo il concorso riservato solo ai docenti di seconda fascia già in possesso di un’abilitazione. Sugli stipendi invece vale il dato del 2013: in media un insegnante di scuola media italiano guadagna 2/3 di un collega Ocse. Né i 400 milioni stanziati dalla legge di Stabilità per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici sono destinati a modificare le cose se vale il calcolo dei sindacati per cui di fatto si tradurranno in 10 euro lordi (7 euro netti) in più in busta paga al mese.

Il saluto del ministro

In apertura del convegno di presentazione del rapporto oggi alle 11 al Miur, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha rivolto un messaggio di saluto ai presenti in cui ha rivendicato le novità contenute nella Buona Scuola. «Numerose delle sfide che il Rapporto “Education at a glance” dell’Ocse propone all’Italia sono state raccolte attraverso le innovazioni messe in campo con la legge 107. La valutazione di dirigenti e docenti diventa strutturale da quest’anno. Grazie al Piano scuola digitale, presentato di recente, abbiamo finalmente una policy complessiva sul digitale a scuola che prevede un investimento da 1 miliardo di euro in cinque anni. Stiamo lavorando al rinnovamento della classe docente, cui si sta provvedendo con un grande concorso nazionale che sarà bandito a breve. Stiamo lavorando, inoltre, per arricchire le competenze teoriche e pratiche dei nostri studenti attraverso l’ampliamento dell’offerta formativa e finanziamenti specifici sui progetti di alternanza scuola-lavoro».

Laureati di prima generazione svantaggiati rispetto ai «figli di»

Quanto agli esiti lavorativi, in Italia la laurea paga meno che altrove: da noi il vantaggio remunerativo (rispetto a chi è in possesso di un semplice diploma) è del 143% contro una media Ocse del 160%. Né le cose vanno meglio con il tasso di impiego:62% contro la media Ocse dell’82% (siamo al livello della Grecia). Un tasso addirittura più basso di chi ha solo il diploma di maturità (mentre negli altri Paesi il vantaggio della laurea ai fini di trovare un posto di lavoro è di 7 punti percentuali). Ma quel che è peggio è il tasso di occupazione dei giovani «dottori» che provengono da famiglie senza la laurea. Mentre negli altri Paesi Ocse laureati di prima generazione e «figli di» se la battono alla pari (88% contro 90%), da noi la percentuale è inferiore di 12 punti. «Un’ingiustizia sociale - commenta Avvisati - per rimediare alla quale le università dovrebbero responsabilizzarsi maggiormente sugli esiti lavorativi dei laureati con un servizio di orientamento e placement. Attivando per esempio la rete degli ex alunni, altrimenti continuerà a funzionare solo il placement in famiglia. Ma è chiaro che anche per questo ci vorrebbero delle risorse economiche mirate che invece non ci sono».

In Italia più ingegneri donna della media Ocse

Unica consolazione il superamento del vecchio gap di genere: oggi le laureate sono addirittura più dei laureati:59%. Un risultato non sorprendente visto che già alle superiori i maschi (come dappertutto nell’Ocse) vanno peggio sia in matematica e scienze che nella lettura. La pattuglia femminile però si assottiglia man mano che i sale di livello: 52% di donne in possesso del dottorato e solo 37% dei prof (contro il 41% della media Ocse). Con un dato a sorpresa: le laureate nelle materie tecniche come ingegneria, sono un terzo del totale: sempre in minoranza ma il 5% in più della media Ocse.


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