Intervista a Roberto Maragliano
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Faccia a Faccia sulla riforma scolastica
Intervista a Roberto Maragliano
La scuola sta attraversando un periodo particolarmente burrascoso tra riforma e contro riforma, forse varrebbe la pena, per riprendere le fila del discorso, cominciare col definire precisamente quali sono i punti dolenti, quali gli elementi da cambiare.
Molto sinteticamente, e rischiando gli schematismi inevitabili in questo tipo di ragionare, andrebbe detto che alla base della crisi della scuola sta il conflitto fra l'immobilismo istituzionale e le dinamiche sociali di democratizzazione del sapere che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento. Si tratta di un fenomeno non solo italiano ma caratteristico di tutte le nazioni che si sono date, nel corso dell'Ottocento, un sistema d'istruzione pubblico prioritariamente volto alla ri-produzione della classe dirigente e che nel seguito hanno sostanzialmente mantenuto un tale impianto.
Dinamiche che hanno prodotto due effetti, in un certo senso in sequenza.
Il primo effetto è stato quello di modificare, notevolmente ampliandola, la portata quantitativa del servizio scolastico, con ciò in buona parte modificandone le funzioni, se non quelle esplicite, certamente quelle implicite: si è così passati, e non sempre in modo consapevole, da una scuola per l'élite, coerente con la funzione di cui ho detto, ad un'idea più subita che deliberatamente praticata di scuola democratica di massa, che avrebbe dovuto assicurare, in primo luogo, una formazione di buon livello all'intera popolazione, e che tale obiettivo, com'è evidente, non è riuscita ad assicurare, non consentendoglielo la sua stessa natura di 'scuola riservata'. Insomma, da un'istituzione volta a produrre (e/o riconoscere) l'omogeneità dei pochi si è passati ad una scuola caratterizzata dalla presenza dall'eterogeneità dei molti, e senza che l'articolazione dell'edificio subisse sostanziali modifiche di tipo qualitativo, coerenti con queste trasformazioni di fatto. Il che ha fatto sì che la funzione di selezionare i pochi, che la scuola d'élite esercitava in base ad un preciso mandato sociale e tramite meccanismi ai quali era riconosciuta piena legittimità (per esempio, il rigido sbarramento nell'eccesso alla scuola secondaria, mantenuto fino al 1962 con l'esame di licenza alla media non ancora unica), abbia continuato a valere nell'intimo di una scuola di massa non compiutamente democratica (cioè disponibile al cambiamento più sul piano della forma dell'ideologia didattica di riferimento o anche dell'ampliamento dell'accesso che non su quello della revisione della qualità stessa del servizio). Oggi abbiamo a che fare con una scuola selettiva di massa, caratterizzata dall'impressionante differenziazione dei percorsi della formazione secondaria e nello stesso tempo dall'attenuazione dell'utilità sociale riconosciuta al contenuto di formazione che essa propone.
Nella sua intervista Raffaele Simone segnala il divario enorme che separa i giovani dalla scuola, e come i ragazzi si rivolgano altrove per soddisfare le loro esigenze o curiosità culturali'
In questo sono d'accordo con l'amico Simone, anche se poi divergo dalle sue valutazioni.
Alla dequalificazione interna alla scuola, di cui ho detto prima, si è accompagnato, in tempi più recenti, il fenomeno del plateale incremento degli investimenti educativi operati dalla società fuori della scuola. Ne è conseguito uno svaporamento del principio dell'esclusività tradizionalmente riconosciuto alla scuola, riguardo alla riproduzione del sapere. E questo è il secondo degli effetti delle dinamiche sociali ai quali ho fatto riferimento all'inizio di questo mio ragionamento. Quello che riguarda il mondo esterno. Provo a fissare meglio i concetti.
Per un verso, si è assistito ad uno snaturamento e ad uno svuotamento del senso stesso della scuola.
Per un altro verso, ci si trova a fronteggiare, nella cosiddetta società della conoscenza, l'ingordigia educativa (dis-educativa, secondo alcuni) di un sistema societario che fa grande affidamento sul valore commerciale del sapere.
Il sapere diventa sempre più materia di interessi e una scuola attardata a pensarsi come disinteressata (anche quando non lo è) sembra definitivamente uscire dal gioco. Così, la scolarizzazione informale della società 'descolarizzantesi', e in primo luogo quella indotta dalle dinamiche del mercato, sta di fatto prevalendo sui riti sempre più stanchi e autoreferenziali della scolarizzazione formale.
La crisi dell'insegnamento, in primo luogo scolastico, avviene in concomitanza con l'esplosione dell'apprendimento.
Vuol farci qualche esempio?
Prendiamo le berlusconiane tre 'i'.
Checché se ne dica, il perseguimento degli obiettivi di formazione negli ambiti dell'uso delle lingue e delle macchine digitali è ormai quasi tutto fuori dell'istituzione scolastica (università compresa), e lo è anche l'elaborazione/fissazione dei criteri e delle modalità della sua certificazione. Per il mercato del lavoro, e dunque per l'azienda fa più fede la patente europea del computer che non il diploma di un istituto tecnico/professionale dell'area elettronica. Insomma, la sostanza materiale delle tre 'i' è già tutta giocata fuori della scuola istituzionale.
Non sto dicendo che questo è un bene, né che è un male.
Sto semplicemente dicendo che è un segno evidente, plateale di dove e come va il mondo.
Alla scuola che dovremmo impegnarci a ri-definire è chiesto di sapersi adeguatamente collocare dentro un tale processo, dove l'adeguatezza andrebbe riportata ai seguenti tre fattori:
1) la consapevolezza del significato prospettico che un tale processo reca con sé,
2) la capacità da parte nostra di entrare realmente, e proficuamente, in dialettica con tale processo,
3) il riconoscimento di quanto sia illusorio l'obiettivo di contrastare un tale processo con gli strumenti ormai definitivamente invecchiati di una 'pedagogia istituzionale' (o, se si preferisce, di una sempre più ingessata e autoreferenziale istituzione pedagogica, quale la scuola modellata dalle idee Bertagna/Moratti si riduce ad essere oggi).
Non mi sembra che ci si stia movendo ora, né che negli anni appena trascorsi ci sia mossi esplicitamente in questa direzione.
La riforma Berlinguer e la riforma Moratti mettevano a fuoco questi problemi? Cercavano ed eventualmente trovavano una risposta realistica?
Un confronto può essere fatto tra le due 'cose' - la 'riforma dei cicli' che è legge dello Stato e la riforma Moratti, da pochi giorni approvata con un decreto legge del governo - e riguarderà i sistemi di idee ai quali l'una e l'altra fanno riferimento: sistemi che appaiono fin dal primo sguardo e sono e ulteriormente si confermano, mano a mano che li si analizza, decisamente diversi.
Da una parte, quella della legge 30 del 2000, la riforma dei cicli, c'è l'idea che la mutata situazione sociale richieda un rafforzamento della formazione di base, vale a dire un incremento delle opportunità offerte da una scolarizzazione comune che faccia giustizia di articolazioni strutturali interne (tra elementare e media) non più giustificabili, allo stato attuale, se non in chiave puramente ideologica. L'obiettivo al quale ci si aspira è assicurare a tutta la popolazione giovanile un'omogenea dotazione culturale e strumentale: sette anni di istruzione primaria più due di scolarizzazione secondaria in buona parte equivalente, cioè nove anni di formazione comune, tutti spesi dentro un'istituzione scolastica complessivamente ripensata, anche nelle sue ripartizioni interne, in funzione dei nuovi obiettivi. Il centro gravitazionale di questo impianto non è più nella scuola liceale, com'era nel sistema che per comodità chiamiamo gentiliano, ma risiede, appunto, nella scuola di base.
Dall'altra parte, quella dei vari documenti Bertagna e dei progetti governativi, c'è l'idea di fondo, cinicamente presentata come 'realistica', che la scuola possa fare assai poco per contrastare i meccanismi della riproduzione sociale del sapere e delle professioni. Ne viene che un po' del suo (mitico) smalto antico potrebbe riconquistarselo assecondando questi stessi meccanismi, e quindi rinforzando (almeno nella forma, visto che la sostanza sta altrove) la sua immagine di scuola per la formazione di una classe di dirigenti. Coerentemente con questo assunto, il centro gravitazionale del sistema resta nella secondaria superiore, che viene comunque attraversata da una fortissima cesura tra la formazione 'disinteressata' della scuola e quella 'interessata' della formazione alle professioni. Prima di questo livello tutto resta immutato, salvo qualche piccolo intervento di maquillage ideologico.
Questa riforma riuscirà a tradursi in realtà, in legge dello Stato?
Dal punto di vista materiale, non credo che la traduzione in pratica di questa 'riforma' Moratti potrà godere di maggiori possibilità di riuscita di quelle che sono state accordate alla 'riforma' Berlinguer. Sulle ragioni di questo mio giudizio tornerò in seguito.
Qui mi attengo ad una valutazione politica generale. Prevedendo un flop, dovrei stare tranquillo? Nossignore.
Quel che mi preoccupa non è tanto il fatto che certi progetti di ingegneria scolastica e pure le relative leggi si affermino, verranno infatti il tempo e il modo di contrastarli, ridimensionarli e annullarli, come è stato per quelli che li hanno preceduti, mi angustia piuttosto il fatto che le idee hanno una resistenza maggiore dei dettati legislativi, e quindi tendono a restare. Per decenni, nel nostro paese, hanno avuto difficile circolazione, se non nulla, considerazioni del tipo: 'esistono le doti naturali', o 'non tutti meritano di accedere alla scuola'. Oggi, a sostegno del progetto morattiano e come fattore di liberazione dalla (presunta) egemonia della sinistra pedagogica, frasi siffatte ce le ritroviamo in ogni dove.
Voglio dirlo in termini chiari. Queste sono esplicite reazioni a buona parte delle idee che hanno accompagnato e orientato, nel nostro paese, la crescita della consapevolezza collettiva in fatto di pedagogia e scuola, nel corsi degli ultimi cinquant'anni: per esempio, l'idea che le doti di natura siano costrutti culturali, che rimandano a dati di fatto modificabili anche tramite l'intervento scolastico; o ancora, l'idea che una formazione scolastica 'lunga' e il più possibile estesa porti in sé un valore socialmente progressivo. E' difficile negare che tali idee godano oggi di un buono stato di salute.
Dopo una 'bagnata' come quella subita negli ultimi mesi, riportare al centro del confronto scolastico ed educativo assunti come questi che ho voluto richiamare sarà tutt'altro che facile. Lo sarà sul piano della professione docente, di quella genitoriale, di quella politica. E' lì che vedo il problema più grosso.
Potrei dirla così: temo che al buon senso si sostituisca un senso comune di bassissimo livello.
La riforma Moratti è in qualche modo una reazione alla riforma Berlinguer; non può essere che per risolvere gli aspetti negativi di questa si debba partire da quella che l'ha preceduta e dalle ragioni del suo fallimento?
Confermo quanto altre volte ho sostenuto, e cioè che, per quanti intendano dare una valutazione storico-politica del difficile cammino della riforma scolastica nazionale, appare ben più impegnativo e intricato da dipanare il nodo Berlinguer di quanto non sia, almeno per ora, il nodo Moratti. Allo stato attuale è ben più arduo rispondere alla domanda: 'Perché è fallita la riforma dei cicli?' che non a interrogativi come: 'Cosa c'è sotto il progetto Moratti?', 'Riuscirà a decollare?','Che resistenze troverà la sua attuazione?'.
Una riforma preparata in più di trent'anni di elaborazioni e di appassionati confronti, di tentativi falliti e di mezze riuscite, alla fine è approdata al traguardo lungamente atteso della sanzione normativa: la legge 30/2000, appunto. Ma ci è arrivata esausta, e subito dopo ha iniziato a perire, non solo per una opposizione dall'esterno, di tipo politico - quella che il centrodestra ha saputo così bene tesaurizzare e utilizzare anche a fini elettorali -, ma anche e soprattutto per una opposizione interna, nella quale la componente liceale del corpo docente ha trovato un utile e vivace alleato in parte della cultura accademica. Se provassimo a fare uno spoglio delle idee sulla riforma dei cicli riportate nelle aree di commento dei quotidiani italiani collocati vicino o dentro l'area del centrosinistra troveremmo perplessità, prese di posizione critica, distinguo a non finire. Per non dire poi di casi plateali come quelli di Lucio Russo (autore di Segmenti e bastoncini, il libretto rosso dei licealisti sinistri) o di Mario Pirani (rievocatore, credo inconsapevole, degli accenti del prof. Aristogitone di 'Alto Gradimento'), ai quali va, se non altro, riconosciuto il merito di aver dato voce a quella parte del popolo della sinistra che, separando la sorte della scuola da quella di un mondo resosi sempre più opaco e complesso e problematico, non ha dubbi di sorta sul che cosa e sul come si deve insegnare.
Come mai è avvenuto tutto ciò?
Le risposte potrebbero essere molte. Qui ne richiamo una sola.
L'area culturale e professionale che troppo ingenuamente si è pensato, in sede politica, di avere a garanzia e sostegno della bontà della legge 30, era ed è tuttora attraversata da una divisione ideologica di non poco conto: da una parte chi pensa che la scuola debba cambiare perché fin qui si è troppo chiusa al mondo, dall'altro chi pensa che debba farlo perché si è troppo aperta.
Nutro inoltre il sospetto che una tale divisione abbia favorito l'emergere di dubbi, interrogativi, perplessità, rifiuti. Le due anime della pedagogia 'democratica', non in conflitto tra di loro finché a tale pedagogia era stato attribuito un ruolo di opposizione, hanno iniziato a diventarlo quando le sono stati affidati compiti di governo: in una prima fase della legislatura, quella 'poetica' della messa a punto del progetto di cambiamento della scuola, ha prevalso lo spirito dell'apertura, dopo, quando i problemi tremendi della 'prosa' del governo dell'attuazione sono venuti a galla, è subentrato lo spirito della chiusura. In sintesi, credo di poter legittimamente affermare che la riforma della scuola è fallita perché non si è stati capaci di coniugare - e tenere sempre all'erta - utopia e realismo.
C'entra anche una profonda difficoltà a cambiare '
Certo, al fondo di tutto ciò c'è anche il drammatico vuoto nella cultura dell'attuazione che il nostro paese si trova a fronteggiare ogni volta che viene sancito sul piano legislativo un profondo cambiamento.
È indubbio che se il cambiare pezzi alla scuola fosse una consuetudine, una pratica abituale, come è altrove, e non rivestisse il carattere eccezionale ed epocale che ha assunto qui, noi tutti saremmo più tolleranti di fronte al possibile errore e più proiettati ad osare.
Ma al di là di queste giustificazioni di cornice, resta il fatto che fattori di lungo, medio e breve periodo hanno contribuito ad accecare gli stessi padri della riforma dei cicli e a smarrirli proprio sul terreno cruciale delle alleanze: relativamente agli insegnanti, si è passati rovinosamente da una colpevole sottovalutazione ad un'altrettanto colpevole sopravvalutazione del loro ruolo; sul fronte della società civile, ben poco è stato fatto per far capire le ragioni del cambiamento e i vantaggi che probabilmente ne sarebbero venuti a tutti.
Che adesso noi tutti si partecipi al tiro a segno contro il sociodarwinismo morattiano non ci esime dalle nostre responsabilità.
Quale potrebbe essere, allora, la via da seguire?
Beh, cerchiamo di aprire gli occhi.
Non ci sono composizioni possibili tra la scuola Berlinguer e la scuola Moratti. Pensare a qualsiasi continuismo riformatore sarebbe illusorio. Da una parte resta un progetto generoso, miseramente fallito. Da un'altra c'è un senso di rivalsa, che trova soddisfazione nel constatare (e sancire) tale fallimento. Pari e patta.
La scuola resta quella di prima, sul piano degli ordinamenti.
Ma non su quello dei pensieri e delle azioni.
C'è una traccia che sarebbe opportuno seguire nella lunga 'traversata' che ci aspetta: è quella della battaglia delle idee, alla quale dobbiamo saper arruolare tutti coloro che ancora attribuiscono all'educazione una qualche possibilità di cambiare le cose del mondo. Il primo passo da fare, secondo me, è di ricostituire un tessuto di credenze/concettualizzazioni comuni, coerenti con l'utopia di una scuola dei saperi, integrata nella società della conoscenza. Il secondo passo è di dare corpo politico a questa utopia e di farlo ampliando il più possibile l'area del consenso e della convergenza. Il terzo è fare in modo che una parte significativa dei lavoratori della scuola sostenga un tale percorso e lo voglia tradurre in prassi quotidiana, sia sul piano professionale sia su quello politico-culturale. Il quarto passo potrebbe venire dai tre precedenti, corrispondendo ad una drastica riduzione del portato accademico di tutti questi nostri discorsi.