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Innovazione, alla ricerca del PIL perduto

l’innovazione batte la concorrenza sleale e globale del «vince chi costa meno»

30/03/2014
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l'Unità

CHISSÀ SE TRA UNA PACCA E UNO «YESYOUCAN»OBAMA È RIUSCITOA RACCONTARE A MATTEO RENZI dell’incontro che ha avuto mesi fa con un altro quasi giovane italiano. Si chiama Moretti, ha 45 anni, e anche se nel mondo accademico internazionale va come un treno, non percepisce superstipendi come l’omonimo di Trenitalia. Enrico, questo il nome del Moretti studioso, è uno di quei cervelli che la premiata ditta italiana regala ogni anno al resto del mondo.Un gentile omaggio a quei Paesi che vogliono crescere o continuare a farlo, come l’America dove Enrico Moretti vive e lavora da anni insegnando Economia all’Università di Berkeley. E dove ha scritto, prima in inglese e poi in italiano, La nuova geografia del lavoro, un libro che negli Stati Uniti è da oltre un anno un testo di riferimento continuamente citato da Wall Street Journal e New York Times al punto che lo stesso Barack ha voluto invitare l’autore alla Casa Bianca. Lo ha chiamato non certo, o non solo, per vedere una persona di cui tutti parlano (anche i presidenti hanno le loro debolezze) ma per conoscere le sue opinioni sui fattori che nell’era della grande concorrenza globale (questo il vero nome della globalizzazione) determinano il successo o l’implosione di un Paese e della sua economia. E che, come tutti ripetono al di là delle Alpi (un po’ meno al di qua) non è più spiegabile soltanto con il raffronto fra il costo orario dell’operaio di Pordenone e di Cassino rispetto a quello del collega polacco o di Taiwan. Quel criterio vale solo al momento finale della produzione, non in quello iniziale dell’ideazione. Per capire dove il lavoro si sposta e cresce, infatti, non basta più leggere le buste paga, ma bisogna contare le tesi di laurea, meglio ancora se di dottorato. E il motivo è semplice: dove c’è ricerca c’è ricchezza. Per una serie di motivi. Il primo è che l’innovazione batte la concorrenza sleale e globale del «vince chi costa meno»: il lavoro generato dalla tecnologia, dice Moretti, è unico perché nasce da un progetto originale e non replicabile, almeno per qualche anno, nelle fabbriche cinesi o polacche. Il secondo è che dove c’è innovazione, crescono servizi e si crea occupazione. Nella stessa città, per ogni nuovo posto di lavoro in settori innovativi, ne nascono altri cinque in settori tradizionali. Perché tra gli effetti della ricerca non ci sono solo nuovi brevetti e nuove tecnologie ma anche tutti quei servizi (connessione, trasporti, ristoranti, farmacie, dentisti...) collegati alla presenza e al lavoro dei ricercatori stessi. E infatti Silicon Valley non è più un anonimo insieme di garage e magazzini con geniali studenti che inventano e montano computer, ma una vasta area di aziende ipertecnologiche percorsa da autobus con wi-fi e taxi con i vetri oscurati che portano i giovani ingegneri verso le abitazioni e i ristoranti più costosi di San Francisco. Battere la concorrenza e creare posti di lavoro: ecco due buone ragioni per investire nelle università e nella ricerca. Che è proprio quello che gli Stati Uniti, ma non solo, stanno facendo per uscire dalla Grande Crisi. Peccato che sia l’esatto contrario di quanto stiamo, testardamente, facendo noi da qualche anno. Prendiamo l’università: negli ultimi dieci anni le nostre iscrizioni sono crollate del 20% mentre gli abbandoni prima del titolo sono cresciuti del 40%. Da noi si laurea il 22,3% dei giovani tra 25 e 34 anni, che è un bel passo avanti rispetto al 7,1% del 1993 ma che ci pone molto indietro in confronto alla media Ue del 35%. In rapporto ai Paesi Ocse, come ha ricordato di recente Napolitano, spendiamo per l’Università il 30% in meno e dal 2009 siamo riusciti nell’impresa di tagliare ai nostri atenei un miliardo di euro. Chissà, poi, se oltre a ricordargli di rispettare il 2% di fondi che dovremmo alla Nato (pacta servanda sunt, compresi quelli atlantici) il presidente americano ha detto al nostro premier che l’Italia dovrebbe ragionare seriamente su un altro percento: quell’1,25 del Pil destinato alla ricerca che, se non verrà corretto in fretta, fa capire senza troppe parole quale sarà la «geografia del lavoro» dei prossimi decenni. Il Paese di Obama e quello della Merkel spendono più del doppio dell’Italia (2,7% gli Stati Uniti e 2,89% la Germania) mentre Giappone e Finlandia (3,37% e 3,8%) quasi tre volte: secondo voi, dove nasceranno i nuovi posti di lavoro nei prossimi dieci anni? A Porcia dove l’Electrolux chiude perché il «lavoro costa troppo» o in Slovenia ed Estonia che in questo momento stanno investendo il 2,47 e il 2,37% del Pil? E chissà se l’amico Barack avrà detto a Matteo che il modo migliore per farsi del male, come Paese, è formare dei giovani talenti per poi regalarli all’estero. La formazione di un ricercatore, dall’asilo al dottorato, costa allo Stato 124.000 euro. Negli ultimi dieci anni ne sono volati via 68.000: fanno 8,5 miliardi di euro regalati senza contare quello che i giovani talenti regaleranno ai Paesi che li hanno adottati in termini di scoperte e creatività. Queste cose Matteo Renzi le sa bene, magari le ha dette lui stesso a Barack Obama, visto che tra i due c’è stata una evidente sintonia. Ma allora perché non dirle anche a noi, anzi ai suoi ministri? Perché non mettere, tra le azioni indispensabili per cambiare verso all’Italia, la necessità urgente di investire in ricerca e fermare la fuga dei cervelli? Magari detassando completamente l’assunzione di giovani ricercatori: togliere il cuneo tra noi e il futuro, non sarebbe uno slogan efficace? I fondi, certo: se si spendeva poco prima, perché mai si dovrebbe spendere di più proprio adesso che la crisi infuria e il pan ci manca? Obiezione respinta, come dicono nei film. Per due motivi. Il primo è che proprio nel buio della crisi bisogna investire per cercare nuove strade e vie d’uscita. Il secondo è che i fondi ci sono ma non si vedono. Come abbiamo ricordato la scorsa settimana, ogni anno spariscono dal radar del fisco 120 miliardi di evasione fiscale: recuperarne una piccola parte, anche solo un dodicesimo, vorrebbe dire dieci miliardi che consentirebbe di aumentare più del doppio quello che lo Stato spende oggi in ricerca (meno di nove miliardi l’anno). C’è ancora punto che l’amico americano avrebbe potuto affrontare, se non lo ha fatto, durante l’incontro di giovedì con Renzi: il ruolo dei privati. Come nota il NewYorkTimes, gli imprenditori più ricchi d’America hanno iniziato ha sostenere direttamente lo sviluppo di nuovi progetti di ricerca: la Bill & Melinda Gates Foundation ha speso dieci miliardi di dollari in progetti che vanno dalla lotta alla tubercolosi, alla malaria alla polio; Paul Allen, amico di Bill e cofondatore della Microsoft, ha stanziato 500 milioni per lo studio del cervello; Ralph Ellison di Oracle, oltre a finanziare la barca che ha vinto la Coppa America, ha creato la Ellison Medical Foundation che ha sostenuto il lavoro di tre premi Nobel. Il 30% della ricerca del mitico Massachusetts Institute of Technology è finanziata dalle donazioni dei privati. Certo, a rendere convenienti i finanziamenti privati alla ricerca ci sono alcuni evidenti vantaggi fiscali ma intanto, mentre in Italia stiamo a discutere se la patrimoniale sia una soluzione o una parolaccia, nel Paese di Barack hanno rimesso a lucido la frase di John Fitzgerald Kennedy: «Non chiederti cosa il Paese può fare per te, ma cosa tu puoi fare per il Paese».  @lucalando 


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