Indicazioni/2012: c’è anche la scuola dell’infanzia
Giancarlo Cerini
“Gioiello di famiglia”
C’è un filo “rosso” che accomuna gli orientamenti della scuola dell’infanzia degli ultimi 20 anni. E’ l’idea di una scuola pienamente inserita nel sistema educativo dei “grandi”, di cui condivide finalità, curricolo, professionalità dei docenti, ma che mantiene una sua specificità di “ambiente di apprendimento, di relazione, di vita”, un suo curricolo “ecologico” (perché rispettoso delle caratteristiche dei bambini dai 3 ai 6 anni), una professionalità dei docenti necessariamente in equilibrio tra cura e insegnamento.
Questa originalità viene confermata nelle prime stesure del nuovo testo di Indicazioni per il curricolo (2012), destinate a prendere il posto delle Indicazioni/2007 che al 31 agosto 2012 terminano il loro periodo di vigenza sperimentale (ai sensi del Dpr 89/2009). Ma è proprio questa continuità che viene da lontano, almeno dagli Orientamenti/1991, che rende l’operazione di revisione credibile e possibile, attraverso la conferma dell’impalcatura culturale, pedagogica e curricolare del testo del 2007, con qualche elemento di dis-continuità, come vedremo.
Il testo sulla scuola dell’infanzia mantiene il suo “posizionamento” autonomo e distinto rispetto agli assetti disciplinari e pedagogico-didattici del primo ciclo (elementari e medie), ma condivide la comune visione d’insieme del percorso 3-14 anni, che trova oggi un riscontro rinnovato nel concetto di scuola di base e nell’innesto delle scuole dell’infanzia (statali) nell’alveo degli istituti comprensivi. E’ bello sapere che anche i docenti della scuola primaria e secondaria, ricevendo il testo delle nuove Indicazioni troveranno nel medesimo “manufatto” (sperando che il MIUR provveda a fornirne una copia ad ogni docente, come avvenne nel 2007) le Indicazione per la scuola dell’infanzia, e viceversa, a conferma di una comune responsabilità educativa e di una pari dignità professionale.
Un curricolo a misura di bambino
La scuola dell’infanzia si caratterizza per la particolare “qualità” del curricolo, che mantiene una sua plasticità e delicatezza e non può sovrapporsi ai ritmi ed alle modalità tipiche dello sviluppo infantile. Lungi dal pensare ad un modello naturalistico di “maturazione” o addirittura allo spontaneismo, il concetto più pertinente potrebbe essere quello di “bildung” (formazione/sviluppo), da intendersi come centralità e iniziativa del soggetto nel processo della propria crescita, sostenuto però dalle condizioni favorevoli del contesto educativo, di cui gli adulti si prendono cura con intenzionalità pedagogica (forse è con questo significato pro-attivo che si è introdotto nel testo l’idea della scuola come un ambiente “protettivo”).
La struttura compositiva delle Indicazioni, per “campi di esperienza”, rimane confermata nella sua produttività didattica, perché aiuta a cogliere le analogie con il concetto di “disciplina” (infatti sotteso ad ogni campo troviamo uno o più sistemi simbolico-culturali, cioè un substrato di conoscenze, di linguaggi, di abilità), ma anche le differenze, perché il “campo di esperienza” mette al centro dell’apprendimento l’operare del bambino, la sua corporeità, le sue azioni, le sue percezioni. Sarebbe però riduttivo pensare al campo di esperienza solo sotto il segno del “fare”. Infatti, il bambino trova in ogni “campo” (connotato dai “segni” della cultura) il contesto per diventare via via più consapevole delle sue esperienze, perché le ri-elabora, le ri-evoca, le ri-costruisce proprio grazie ai “mediatori” (immagini, parole, strumenti, informazioni), messi a disposizione dal campo. Come non vedervi un forte richiamo alla psicologia culturale, in particolare a Bruner e alla sua cultura dell’educazione.
Finalità della scuola e profilo del bambino
Si nota nella bozza proposta alla consultazione delle scuole un linguaggio più sobrio e semplice, più vicino alla sensibilità degli insegnanti, ma non per questo (si spera) meno banale. Ad esempio, la parte introduttiva del testo, che identifica la scuola dell’infanzia (ed i suoi compiti), è stata resa più asciutta, con essenziali richiami al diritto all’educazione dei bambini dai 3 ai 6 anni ed alla responsabilità delle istituzioni nel garantirla al più alto livello. E’ pur vero che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria (quanti rammarichi si sentono nelle parole dei docenti…), ma nonostante ciò essa è ampiamente frequentata e richiesta dai genitori (già oltre il 95%). Dunque non sembra necessario rinforzare l’obbligo di frequenza dal punto di vista giuridico, quanto piuttosto l’esigibilità di questo diritto, oggi messo a dura prova dalle ristrettezze finanziarie, che hanno portato al blocco dell’espansione della scuola statale, a forme di esternalizzazione dei servizi educativi comunali, ad una maggiore faticosità dell’organizzazione didattica (e qua e là affiorano le liste d’attesa, mentre agli utenti vengono chieste rette di frequenza sempre più elevate).
Ma le Indicazioni sono un documento di natura culturale e progettuale e sarebbe improprio caricare su di esse problemi di natura strutturale che devono trovare soluzione in altri provvedimenti legislativi e amministrativi. La speranza è che un buon testo di Indicazioni possa convincere anche i non addetti ai lavori (pensiamo soprattutto ai decisori politici) a prendersi a cuore le sorti della scuola dei piccoli. Non sono di poco conto le finalità di questa scuola, nelle quali si parla di identità, autonomia, competenza e “cittadinanza” nei bambini dai 3 ai 6 anni. Queste finalità trovano le loro radici nel testo del 1991 (le prime tre) e del 2007 (l’ultima), ma spesso sono state una “bandiera” senza una effettiva ricaduta nella pratica curricolare e didattica. Il loro legame con i campi di esperienza potrebbe essere rinsaldato suggerendo che le finalità siano una sorta di assi attorno a cui si possono disporre ed interpretare le liste di traguardi di ogni campo, favorendo la loro convergenza verso un profilo unitario della formazione del bambino.
Questa idea sembra stare alla base del profilo evolutivo del bambino a 6 anni, quasi un ideale “ponte” di collegamento tra scuola dell’infanzia e scuola primaria, in cui le competenze “trasversali” si strutturano attorno ai 4 assi dell’identità (la costruzione del sé), dell’autonomia (il rapporto con gli altri), della competenza (le conoscenze, le abilità, gli atteggiamenti, la riflessività), della cittadinanza (dimensione etico-sociale).
Il bambino che esce dalla scuola dell’infanzia è “competente” perché:
“…ha messo le mani sulla terra, l’ha osservata e si è fatto un’idea di essa, ha annusato i fiori, li ha sfiorati e strappati e ha espresso curiosità ottenendo informazioni; ha ascoltato le storie lette ed ha scoperto il piacere della narrazione e il valore dei segni grafici; giocando ha condiviso, si è strattonato con altri, ha imparato a negoziare e ha fatto sue le dinamiche sociali; ha provato paura, rabbia, gioia; ha conosciuto le emozioni dentro di lui e ne ha fatto pennarelli per colorare le sue esperienze, si è visto perduto-abbandonato ed ha sperimentato la rassicurazione per affrontare nuove esperienze, ha provato il dispiacere di separarsi per ritrovare e ritrovarsi protagonista di legami affettivi importanti.” (questo profilo si deve a Paola Vassuri, pedagogista a Bologna)
La figura del docente, tra bambini e genitori
Tra gli elementi di novità della bozza troviamo un richiamo esplicito alla figura dell’insegnante, con un apposito paragrafo che si affianca a quelli sul bambino e sulle famiglie, quasi a suggellare il patto educativo che deve intercorrere tra i tre soggetti della relazione educativa (bambini, genitori, insegnanti).
Nel profilo del docente non dovrebbero mancare elementi di pedagogia “sociale”, tenendo conto del ruolo di primo impatto della scuola con stili di vita, responsabilità genitoriali, conflittualità, povertà di varia natura, vulnerabilità dei comportamenti degli adulti, che si riflettono sui bambini anche dopo che hanno varcato il portone della scuola. Il profilo sottolinea che l’attenzione ai bisogni di cura, fisica e psicologica, dei bambini è una componente ineliminabile della funzione docente, che non può essere appiattiva su un’immagine di tipo scolasticistico. La complessità della figura è legata all’esigenza di curare l’organizzazione di una giornata educativa, con intelligenza pedagogica, con un giusto equilibrio tra tempi, ritmi, spazi, attività a diversa intensità, senza trascurare la padronanza “adulta” dei sistemi culturali (i campi di esperienza) verso cui far convergere l’esperienza dei bambini.
Occorre anche considerare il nuovo panorama delle sezioni delle nostre scuole dell’infanzia, che si presentano sempre più “colorate”, ricche di diversità, luoghi di accoglienza “universale” di bambini con alle spalle culture, storie, lingue, identità assai diverse. Una sfida supplementare per gli insegnanti, che forse meriterebbe un maggiore approfondimento.
Nel nuovo contesto demografico un ruolo importante è giocato sempre più dagli immigrati. Questo dato implica un forte ripensamento nelle scelte educative, nei curricoli (si pensi alla condizione di bilinguismo imperfetto), nei rapporti con i genitori, negli stili relazionali, nelle abitudini di vita, nell’alimentazione. Problemi per noi inediti, che possono trovare nelle sezioni di scuola dell’infanzia un “laboratorio” di ricerca, utilissimo per tutti i livelli scolastici successivi. A tre anni le differenze possono essere accolte in un contesto educativo che offre ampio spazio al corpo, agli occhi, alle mani dei bambini, dove la parola degli adulti accoglie, accompagna, non si sovrappone ma aiuta le non-parole dei bambini a trasformarsi in linguaggi, codici, alfabeti, condivisi e compresi dalla comunità degli apprendenti. (L’idea di non-parola del bambino è un concetto che ho sentito esprimere da Loris Malaguzzi, tanti anni fa)
Quando il curricolo diventa “cura educativa”
La descrizione dell’ambiente educativo della scuola dell’infanzia (di vita, di relazione, di apprendimento, come suggerivano gli orientamenti del 1991) è stato meglio articolato rispetto alla versione del 2007, mettendo in evidenza:
- le qualità fisiche e psicologiche del contesto ambientale (spazi, sezione, aree esterne, flessibilità, colore, calore, estetica, ecc.);
- il rilevante peso delle routine, da curare con serenità e puntualità (ingresso/uscita, accoglienza. risposo, pulizia, pasti, ecc.), come “base sicura” su cui si innestano numerose esperienze di apprendimento, conquiste di autonomia, relazioni affettive, ecc.
- il concetto di cura educativa nel suo legame con l’idea di apprendimento;
-il posto per il gioco all’interno della vita di sezione, il ruolo dei gadget tecnologici, i materiali, ecc.
-il significato delle esperienze programmate di apprendimento (angoli, atelier, laboratori, ecc.)
Il concetto di “cura educativa”, opportunamente filtrato alla luce dei particolari bisogni di attenzione tonica e corporea, psicologica, affettiva, simbolica che manifestano bambini in età evolutiva, può rappresentare una prospettiva fondativa per una scuola dell’infanzia conscia della sua identità e della sua specificità, ma che sa guardare al “prima” (quando sempre più bambini al di sotto dei tre anni frequentano strutture educative o comunque provengono da famiglie generalmente più avvertite sui temi dell’educazione) e al “dopo” (quando il passaggio verso le strutture scolastiche spesso caratterizzate dal prevalere di obiettivi di apprendimento formalizzati non potrà annullare il bisogno di cura delle persone e della loro conoscenza). Sono autorevoli gli studiosi che hanno affrontato il concetto di “cura educativa”, sia sotto il profilo pedagogico e filosofico (ad esempio, Luigina Mortari), sia dal punto di vista piscologico (ad esempio, Donatella Savio).
Ad ogni “campo” i suoi traguardi
Nella storia recente delle Indicazioni per la scuola dell’infanzia (ci riferiamo alle edizioni del 1991, 2004, 2007) si sono succedute diverse articolazioni dei campi di esperienza (6, 4, 5) ciascuna variamente motivata. La struttura per campi non deve far pensare ad una precoce separazioni o canalizzazione di discipline da insegnare. Non si tratta di organizzare e presentare precocemente contenuti di conoscenza o linguaggi/abilità, in forma di performances da stimolare attraverso l’esercizio o l’allenamento. I campi vanno piuttosto visti come contesti culturali (pratici ed evocativi al contempo) che “sorreggono” l’esperienza dei bambini attraverso l’amplificazione dovuta alla presenza di materiali, immagini, parole, significati impliciti, relazioni, sottolineature promosse dall’intervento dell’insegnante.
Il campo di esperienza “parla” agli insegnanti piuttosto che immediatamente ai bambini, perché consente all’adulto di avere una visione sufficientemente chiara delle potenzialità insite nel campo (in termini di area potenziale di sviluppo veicolato dalle situazioni e dagli “appigli”/artefatti forniti). Ad esempio, nel campo della “matematica” (o meglio, nel paragrafo dedicato alla matematica) appare il termine “angolo”: qualche lettore distratto potrebbe gridare allo scandalo, al precoce insegnamento della geometria, ma leggendo con attenzione si vedrà come l’incontro con il concetto di angolo sia proposto attraverso il movimento del bambino, il suo compiere percorsi, esplorare situazioni, intuire ecc. Così pure l’incontro con la lingua scritta non va inteso come precoce avvio strumentale al leggere e allo scrivere, ma come scoperta del significato dei segni scritti, della loro presenza pervasiva nell’ambiente, del valore evocativo dei segni alfabetici per narrare, ricordare, commentare immagini, storie, libri. Ciò che conta è la costruzione di un rapporto positivo con la lettura e la scrittura, nel senso più ampio di questi termini.
Non dobbiamo pensare ai traguardi della scuola dell’infanzia come se fossero obiettivi prescrittivi da raggiungere, ma come tracce su cui i docenti si sentono impegnati a lavorare. La “prescrittività” dei traguardi riguarda gli adulti piuttosto che i piccoli.
Un traguardo non è dunque un elemento definitivo, ma piuttosto un percorso “da compiersi” attraverso esperienze comuni, documentabili. C’è una progressione che va osservata e con cui interagire. C’è una situazione di scambio tra adulti-bambini-ambiente in cui si stimolano gesti, atteggiamenti, disponibilità, piacere di fare, apertura verso direzioni di sviluppo successive.
"I traguardi di sviluppo sono processi che vengono tracciati, promossi, osservati e documentati per ciascun bambino e indicano i progressi compiuti nella disponibilità ad apprendere, nella curiosità, nella motivazione e nell'impegno, sia in relazione alle finalità (identità autonomia competenza, cittadinanza) della scuola sia in relazione ai campi di esperienza. Non vanno in alcun modo intesi quali prestazioni definite e definitive” (leggo dai verbali della Commissione Fioroni sulle Indicazioni 2007 un appunto che si deve certamente alla penna di Susanna Mantovani).
Ma son “campi” o son “materie”?
In matematica o in musica, e in ogni altro campo, l’insegnante dovrebbe predisporre un quadro di esperienze, potenzialità cognitive, linguaggi simbolici, mezzi espressivi e comunicativi, che dovrebbero essere il frutto della sua preparazione professionale e la bussola della propria intenzionalità pedagogica. La premessa di ogni campo consiste nell’interrogarsi sul rapporto tra esperienza del bambino (il mondo del bambino) e “contenuti” del campo (il mondo degli adulti).
Si sarebbe potuto anche adottare una articolazione maggiore dei campi, ad esempio disaggregando musica dalla più generale area artistico-espressiva e distinguendo matematica dalle scienze), perché il messaggio agli insegnanti è quello della specificità di ogni sistema simbolico-culturale, che l’adulto-docente deve padroneggiare in termini di conoscenze, linguaggi, abilità, lessico e contenuto, ma che poi deve ricomporre nella concretezza delle esperienze di apprendimento dei bambini attorno ad oggetti, storie, situazioni, fantasie, immagini che assorbono in sé una pluralità di contenuti di conoscenza.
Le esperienze di apprendimento dei bambini debbono essere aperte, naturali, integrate, ma questo obiettivo non si raggiunge aggregando a priori le esperienze in aree pluri-disciplinari (con una loro fondazione epistemologica), ma suggerendo agli insegnanti di promuovere “situazioni” di apprendimento unitarie e coinvolgenti e non precoci esercitazioni didattiche per campi separati.
Il campo di esperienza dovrebbe essere soprattutto nella mente dell’insegnante, che ha bisogno di “vedere” e “capire” la ricchezza dell’esperienza dei bambini, per riconoscere, espandere, rilanciare i loro saperi…
… il campo di esperienza è dunque un insieme di sollecitazione, che aiutano il bambino a mettere ordine nel proprio vissuto, a prendere le distanze dalla realtà immediata e partecipata per ricostruirla e ristrutturarla sul piano rappresentativo...Queste affermazioni le abbiamo sviluppate nel volumetto curato da insegnanti nel 2007, Dentro i nuovi Orientamenti, Homeless Book, Faenza (RA), 2007
Il campo “Il sé e l’altro”
Il “sé e l’altro” è un campo che ha sempre fatto discutere, fin da quando fu introdotto negli Orientamenti/1991. A volte è stato interpretato solo come luogo per lo sviluppo del senso morale, per l’educazione alla pro-socialità, per la costruzione di regole di convivenza nella dinamica autonomia-dipendenza. Nella versione 2012 appare più connotato in chiave socio-culturale: la coesistenza di diverse culture, di stili di vita e storie famigliari, di scelte diverse ai valori e alla dimensione religiosa, implica un’attenzione alla conoscenza delle trasformazioni sociali, alle nuove regole della cittadinanza attiva, ai problemi etici, al rapporto con la natura, alla costruzione di senso del futuro.
Il campo ha come oggetto la ricostruzione dell’ambiente di vita dei bambini, nelle dimensioni storiche, spaziali, identitarie, linguistiche, antropologiche, religiose, da curvare verso la consapevolezza di una storia “plurale”, di regole trasparenti di convivenza e cittadinanza, di costruzione di un futuro da vivere insieme, nel delicato equilibrio tra “grammatiche comuni” (da costruire) e diversità (da riconoscere e rispettare).
Le “grandi” domande dei bambini [di cui si parla nelle Indicazioni/2007] sono qui viste come le domande “quotidiane”, le curiosità, i perché dei bambini, che rappresentano comunque la loro spinta a capire il significato della realtà e della vita che li circonda. Le domande “di senso” dei bambini implicano un atteggiamento di ascolto partecipato da parte degli adulti, piuttosto che l’assertività delle risposte. Ciò a maggior ragione di fronte ad argomenti delicati come sono i diversi atteggiamenti che i bambini riportano dalle loro famiglie circa le scelte in materia religiosa, i discorsi sull’esistenza di Dio, il diverso atteggiamento nei confronti delle pratiche religiose.
Le sezioni primavera… e la questione “zero-sei”
Sul piano pedagogico il dialogo tra le culture del “nido” e della “scuola dell’infanzia” (la prospettiva “zero-sei”, tanto cara ai servizi educativi dei comuni) può risultare promettente per delineare con correttezza il curricolo della scuola dai 3 ai 6 banni, perché stimola una più aperta attenzione alle caratteristiche dello sviluppo infantile (con le sue evidenti eterocronie), alle diverse forme in cui si esprime il pensiero dei bambini, alla molteplicità dei linguaggi e dei mezzi comunicativi a loro disposizione, per rappresentare il mondo con cui entrano progressivamente in contatto. Soprattutto può consentire di non irrigidire in formule schematiche le proposte didattiche e l’organizzazione degli ambienti di apprendimento, quasi che dovessero riprodurre un modello stadiale dello sviluppo infantile che non ha ragione di essere.
In questa idea di evoluzione “graduale” vanno interpretate le sezioni primavera, strutture dedicate ai bambini dai 24 ai 36 mesi di età, che rappresentano un’alternativa all’anticipo, in quanto si configurano come ipotesi pedagogica ed organizzativa, ritagliata sui bisogni fisici, relazionali e cognitivi dei bambini dai 2 ai 3 anni. Pur confermando le specifiche identità dei modelli italiani di “asilo nido” e di “scuola dell’infanzia” (che sono radicati ormai nelle aspettative di genitori e comunità locali), vanno però favorite modalità di raccordo e connessione dei percorsi educativi, anche attraverso forme sperimentali ed innovative di strutture educative dedicate a bambini di questa fascia di età. Soluzioni flessibili (sezioni primavera, “piccoli gruppi” misti, nuove tipologie di servizi, centri educativi informali) possono rispondere ad esigenze differenziate di famiglie e meglio inserirsi nella pluralità dei contesti territoriali ed ambientali del nostro paese (piccoli comuni, zone montane, periferie ad alta densità abitativa). Ad ogni modo dovrà essere garantita la massima qualità dell’offerta educativa, attraverso rigorosi parametri organizzativi e pedagogici, affinché l’auspicata flessibilità e plasticità di soluzioni non si trasformi in un rischioso e casule impoverimento degli ambienti educativi per i più piccoli.
Nella scuola dell’infanzia, per un malinteso senso di affermazione di identità come “prima scuola”, a volte si finisce con l’applicare un programma didattico in funzione di preparazione alla successiva frequenza scolastica (c.d. “primina”). Il miglior curricolo di una scuola dell’infanzia coincide con il progetto di sviluppo di ogni bambino (cfr. Vygotskij) e questo obiettivo richiede di costruire un ambiente di vita, di relazione, di apprendimento, attraverso una attenta regia dei docenti, agendo soprattutto sulle caratteristiche del contesto educativo (gli spazi, i tempi, il clima, il calore accogliente e protettivo, gli stimoli all’esplorazione).