"In classe va portata sempre Ci saranno altri malati gravi"
Filippo Anelli Il presidente nazionale Ordini dei medici: "Il Sud del Paese rischia molto di più Nei primi giorni bisognerebbe formare gli alunni sulle nuove necessità e sensibilizzare le famiglie"
«Il coronavirus si sta diffondendo velocemente, ma il ritorno a scuola è una sfida che non si può perdere». Filippo Anelli, 63 anni, presidente della Federazione nazionale ordini dei medici e medico di famiglia a Bari, è per tenere il livello più alto di sicurezza: «La mascherina va portata il più possibile anche in classe e distanze e igiene personale vanno fatte rispettare severamente».
Cos'altro serve per riaprire le scuole?
«Sarebbe utile fornire agli istituti dei termoscanner automatici, così da sgravare le famiglie da ogni responsabilità. E sui mezzi pubblici va garantito il distanziamento, dunque servirebbe una riorganizzazione di traffico e orari. Però tutto questo non ha senso se non si punta di più sull'educazione».
Cosa intende?
«Nei primi giorni di scuola ci vorrebbe una grande operazione di spiegazione per sensibilizzare bambini e
famiglie sull'utilità dei loro comportamenti. Solo tutti insieme possiamo salvare il Paese e allontanare il ritorno di un contagio diffuso. Probabilmente se si fosse fatto prima un discorso del genere non ci troveremmo in difficoltà. Molti giovani non hanno capito la delicatezza della situazione».
C'è bisogno di medici a scuola?
«Sì, ci vorrebbe un medico di raccordo tra i pediatri, il dipartimento di vaccinazione e il personale scolastico. Non può essere un infermiere, ma un professionista come i medici della continuità assistenziale, tra l'altro già disponibili e pronti senza bisogno di concorsi».
Come medici siete soddisfatti dagli stanziamenti del governo?
«Sì, abbiamo potuto fare 21mila assunzioni, aumentare del 10 per cento i posti letto, portare gli specializzandi da 8mila a 14.200 l'anno e retribuire meglio gli straordinari. Purtroppo però questa inversione di tendenza dovuta alla pandemia non basta a recuperare vent'anni di tagli».
Cosa manca?
«Negli ospedali servono 10mila medici specialisti per alzare la qualità del sistema sanitario. Ce ne sono 25mila senza formazione postlaurea e solo 15mila di loro potranno completare il percorso di formazione. Un bell'investimento, ma pure una programmazione necessaria, che da noi è saltata completamente».
Gli ospedali sono pronti per la seconda ondata?
«Molte strutture sono tornate come prima, mentre avrebbero dovuto tenere percorsi paralleli fino alla fine della pandemia. I soggetti con patologie non covid rischiano di tornare ad essere esclusi dagli
ospedali. Negli scorsi mesi c'è stato un aumento di mortalità per infarto e di problemi oncologici. Inoltre il malato cronico per ogni cura deve ancora chiedere la prescrizione a un medico specialista, anziché di base, e passare inutilmente dall'ospedale».
Ora i medici lavorano in sicurezza?
«Non possiamo far morire 176 medici come nei mesi scorsi. Le aziende sanitarie ora devono fare rifornimento di dispositivi di protezione e darli anche ai medici di base. Avevamo suggerito di organizzare sul territorio delle unità di continuità assistenziale per le visite domiciliari in sicurezza, ma non ci hanno ascoltato. Resta poi un altro problema: i farmaci anticovid sono prevalentemente di utilizzo ospedaliero e non disponibili sul territorio, mentre un'assistenza locale sgraverebbe gli ospedali. Per non parlare della possibilità di teleconsulti veloci con uno specialista».
Voi medici cosa vi aspettate nei prossimi mesi?
«Siamo nella stessa situazione di dicembre, quando il virus ci prendeva di sorpresa. Ora i tamponi consentono un controllo, ma ci sono tanti asintomatici. Dunque ci aspettiamo un ritorno del contagio e pure dei casi gravi. Purtroppo prima o poi le fasce più deboli svilupperanno di nuovo le polmoniti. Per questo servono prudenza e rigore nella riapertura di scuole, uffici e nella riorganizzazione dei mezzi pubblici».
Con un contagio non più localizzato al Nord, il Sud rischia di più?
«Non c'è dubbio che ci siano delle disuguaglianze, dovute all'autonomia regionale. In Campania c'è un'aspettativa di vita minore che in Veneto e non solo per il covid, che anzi può esacerbare questa situazione. L'incapacità del ministero della Salute di risolvere questi problemi è nota e per questo proponiamo che venga dotato di poteri e fondi contro le disuguaglianze».
Il governo dovrebbe uniformare le decisioni delle regioni?
«Il servizio sanitario deve essere uguale per tutti e le regioni dovrebbero adeguarsi alle decisioni del governo. L'emergenza ha mostrato come il sistema vada corretto in questo senso, perché le scelte che legittimamente o meno vengono fatte dagli enti locali indeboliscono la risposta al virus». —