Il sorpasso dei precari e negli atenei sale la protesta
Il 56% dei dipendenti è a tempo determinato Al via sabato la mobilitazione dei ricercatori E i docenti: finora briciole, pronti allo sciopero
Ilaria Venturi Corrado Zunino
Tengono corsi, fanno ricerca. E sono la maggioranza: a fine 2017 ricercatori e docenti a contratto formavano un esercito di 63.244 precari, quasi il 56 per cento del personale accademico. Eppure non entrano, tranne una minoranza. I più rimangono fuori dalla porta delle università. E non ne possono più, basta ascoltare le loro voci: «È frustrante, siamo in un collo di bottiglia che non si stappa, perché tu magari hai trent’anni, ma hai davanti degli over 40 ancora in attesa. Siamo invisibili, fai ricerca e insegni senza tutele, eppure siamo necessari».
L’università italiana è in agitazione. Le speranze riposte nel nuovo governo (soprattutto dagli elettori 5 Stelle) si sono infrante in fretta, a partire dalla nomina al Dipartimento università di Giuseppe Valditara, relatore della Legge Gelmini. Poi è arrivata la Legge di bilancio: il ministero dell’Istruzione parla di 100 milioni per il fondo ordinario per gli atenei nel collegato alla Finanziaria, ma ancora non c’è nulla. Diecimila professori hanno firmato un appello ai ministri Bussetti e Tria: più concorsi e fondi per il diritto allo studio (servono 80 milioni ma ce ne sono solo 7). O l’università resterà eterna Cenerentola. «Per ora sono state destinate briciole, la delusione c’è. Siamo pronti a un nuovo sciopero se le cose non cambieranno», anticipa Carlo Ferraro, decano del Politecnico di Torino e voce del movimento per la Dignità della docenza. I ricercatori si riuniranno sabato in assemblea a La Sapienza di Roma per la campagna promossa da Flc Cgil e Adi, l’Associazione dei dottori di ricerca, “Perché noi no?”. A leggere l’indagine sul precariato promossa dalle due realtà gli effetti del blocco del turnover e dei tagli della Gelmini sono evidenti. In dieci anni si sono perse 15mila unità, 1.500 cattedre l’anno, a fronte di piani straordinari insufficienti: 2.100 posti da ricercatore di tipo B, la strada che porta, se abilitati, a diventare professori associati, finanziati dai governi precedenti, altri mille promessi nel 2019 da Bussetti usando le risorse delle ex chiamate dirette, le cosiddette cattedre Natta. «È come voler vuotare il mare con il cucchiaino», osserva Barbara Grüning, sociologa, autrice dell’indagine con Tito Russo della Flc-Cgil.
Russo incalza: «Chiediamo un piano per stabilizzare diciottomila ricercatori e la riforma del reclutamento». Nel 2003 i precari erano il 41,5 per cento, il sorpasso sugli strutturati si è avuto con il blocco delle assunzioni: i “tempo determinato” sono saliti al 54 per cento nel 2009 e al 55,9 per cento del 2017. Li trovi nella didattica, con quasi 27mila docenti a contratto, e nella ricerca, con 36mila tra assegnisti, borsisti e altre figure precarie. Sono senza futuro accademico perché l’unico ingresso che dà prospettive di carriera riguarda il 2 per cento dei ricercatori. «Qui sta il punto: a questi giovani, che sono bravi, vanno date prospettive. È un dovere morale oltre che una necessità per non perdere un capitale umano sul quale abbiamo investito», osserva Rosario Rizzuto, rettore di Padova. Il suo ateneo, secondo l’indagine, è al top davanti a Bologna, Pisa, Firenze, Torino e Pavia per tasso di precari. Ma è anche quello che ha assunto 300 ricercatori in tre anni. «Un grande piano — fa notare Rizzuto — ora ci vuole un impegno di sistema. I mille posti del governo? Un bene, anche se sono pochi, scontano equilibri di bilancio». Gli atenei dove i precari superano gli strutturati sono al Centro-Nord, con Napoli Orientale e Catanzaro. «Basta con l’abuso sistematico dei contratti a termine», protesta Giuseppe Montalbano, segretario dell’Adi.
Sono almeno due le generazioni accademiche che premono alle porte. E gli esclusi sono i più giovani. Nel 2005, gli strutturati under 35 erano 3.500, nel 2017 appena 42. Registra Barbara Grüning: «Così perdiamo saperi e risorse indispensabili».