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Il Riformista: Quest’università ci ha formato Non potremo mai cambiarla

ATENEI. ILLUSIONE POST-MODERNA

30/08/2006
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Il Riformista

DI ALBERTO ABRUZZESE
Il nodo da cui partire per ragionare sulla questione universitaria è dunque in questa attanagliante costrizione del sistema a stare al gioco dei luoghi comuni che è andato producendo nel tempo e ormai persino raffinando, grazie allo sradicamento sempre più forte tra società politica e società civile o meglio vita quotidiana. I luoghi comuni, tuttavia, sono una cosa seria. Ma attenzione: lo sono solo quando vengono dalla viva esperienza di un territorio e non sono dunque quelli generati dall’alto, quelli che, invece, danno corpo al senso più dispregiativo con cui usiamo tale definizione: cose inutili e anzi dannose. I primi vivono in una società aperta, i secondi occupano una società chiusa. I luoghi comuni del comando non sono la stessa cosa dei luoghi comuni dell’abitare. Questi, a patto di penetrarne il senso apparentemente palese, indicano il mondo così come è. E cioè indicano la realtà in tutta la sua potenza immaginaria. Non sappiamo più quali siano le immagini con cui la gente rappresenta l’università. E soprattutto: da quanto tempo abbiamo smesso di immaginare l’università? Da quanto, pur quando tesi a immaginare il mondo che abitiamo?
Ad evitare ogni sgradevole impressione di grillo parlante, per quanto mi riguarda ammetto di avere sostanzialmente mancato di farlo per almeno trenta anni, cioè la mia intera carriera universitaria. Mi sono accanito, come docente, a pensare solo su ciò che avevo e ancora ho davanti, sulla memoria delle mie discipline e delle loro istituzioni materiali e immateriali. Non mi è venuto in mente - tanto la nostra identità appartiene a una corteccia antropologica socialmente conformata - che quanto più capivo o almeno mi pareva di capire i mutamenti del mondo, tanto più ancora mi illudevo che questo potesse servire a modificare modelli e spazi della ricerca e della formazione. Tipico modello pentecostale e illuministico, appena appena ammorbidito dal faccia a faccia emotivo tra maestro e discepolo: l’aula/popolo e l’in-seminatore di idee. Ho cominciato a insegnare all’inizio degli anni Settanta del secolo passato e sin da allora mi appassionavo nella scoperta delle sempre più rapide metamorfosi dei corpi della comunicazione in transito dai regimi di massa a quelli di rete, dalle identità collettive forti a quelle instabili e mutanti, dalle piattaforme espressive alfabetiche a quelle sensoriali, psicosomatiche. Eppure mi sono ostinato a insegnare e valutare, selezionare e formare i giovani come se essi fossero miei simili e non invece proprio i corpi che pretendevo di avere imparato a conoscere e di avere messo al centro delle mie teorie e delle mie capacità didattiche.
Il dibattito sull’università, dunque, trova tutti su uno stesso piano mentale e psicologico, in accordo o in disaccordo che siano. Non è un caso. Nessun pensiero sconveniente - e tanto meno gesto - è ancora emerso a proposito dell’università: su di essa si proiettano al massimo i diversi punti di vista ideologici e gli opposti interessi applicati ad ogni altra causa sociale. Se riuscissimo a prendere atto di questa realtà, allora bisognerebbe far partire il discorso da ben altri presupposti. E dire: da decenni tutti i governi non hanno tentato di trovare le risorse necessarie all’università perché le loro tradizioni e i loro modelli organizzativi non avrebbero mai potuto farlo; i professionisti delle amministrazioni, così come dell’accademia, così come dell’impresa, non hanno fatto nulla di sostanziale nei confronti dell’università perché sono stati selezionati, formati e premiati secondo logiche che nulla potevano e possono avere a che spartire con la capacità intuitiva e la volontà rigeneratrice di cui un processo innovativo ha bisogno per avere luogo e forza propria. Dunque: ripartendo continuamente dagli stereotipi sociali sull’università si resta sempre in una possibilità di fatto impossibile. Non si riuscirà mai a entrare nel possibile senza un bagno di esperienza comune del mondo (dunque extrauniversitaria). E senza la sperimentazione dell’impossibile. Di ciò che ora appare realmente impossibile.
Messa così, la questione ci dovrebbe finalmente impedire di parlare male della politica e dei politici, delle università e dei professori, del governo e delle sue politiche economiche, degli imprenditori e delle loro strategie di sviluppo. Parlare male di costoro significa dare loro credito, sperare in loro, credere che loro possano fare qualcosa. E questa concessione è un lusso che, in una situazione estrema come la presente, non ci si può concedere, esattamente quanto è un lusso inammissibile parlare di tale situazione - così come essa è - e prefigurarne le soluzioni, così come si danno per obbligo. Il lusso è sinonimo di spreco. Ma è tale quando si fa forza dissipatrice di ricchezze. Quindi il lusso che ci concediamo, continuando a parlare come se le istituzioni universitarie possano essere risanate, non è propriamente un lusso, ma lo stanco far bricolage con resti e scorie di una tradizione inutilizzabile (il peggio delle illusioni post-moderne). Ci serve l’altro lusso, quello generatore di sviluppo. Esso è creativo e la creatività è ciò che ci vuole per connettere quanto sino a prima è restato sconnesso, distante, incompatibile (ad esempio il senso di una cultura di massa nata nei consumi e la formazione di giovani che sono nati da quel mondo e non dal mondo in cui ancora vive, per conto suo, ogni disciplina e ogni ruolo e ogni linguaggio delle istituzioni universitarie). Il lusso è capacità sacrificale. Rito cannibalico. Valorizzazione. Ma questo potenziale creativo vale su un corpo e su un tessuto vitale e non su territori che non solo non hanno avuto più qualcosa di cui alimentarsi ma hanno cessato anche di nutrirsi.
(2 - continua)


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