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Il reality show dell'università
Vi sono varie questioni, e piuttosto sottili, che possono essere suscitate anche solo a prendere nel senso migliore l'accezione corrente
14/12/2012
il manifesto
Maurizio Matteuzzi
La società fondata sul merito è organizzata secondo un rigido sistema di caste, come scriveva nel Regno Unito Michael Young. In quello stesso paese, alcuni anni dopo, è diventata la promessa di una società giusta fondata sul mercato. E l'università si è trasformata nel laboratorio governato dai «migliori» Il sapere è stato trasformato in pillole da dispensare agli studenti, ridotti a clienti-utenti
«Meritocrazia» compare in The Rise of Meritocracy 1870-2033, del sociologo e politico inglese Michael Young; il termine viene a calco dei termini greci «democrazia», «aristocrazia». Il testo di Young è del tipo utopistico-immaginario, come Utopia di Thomas More o Ucronie di Charles Renouvier. L'autore sviluppa un'ipotesi suggestiva, su cui giova riflettere. Supponiamo di avere a disposizione l'algoritmo perfetto per calcolare il merito; qualcosa, insomma, di molto lontano dai criteri escogitati dall'Anvur. Supponiamo, pertanto, di dare a ciascuno secondo questo algoritmo, per esempio, diamo istruzione molto differenziata, la miglior ai più dotati, e via via più scadente a mano a mano che si scende nella scala del merito. Che società avremo nel 2033? (che per Young era un tempo lontanissimo). È facile dedurlo: avremmo una società divisa in caste, le une impenetrabile alle altre, disgiunte come una partizione di un insieme in senso matematico. Cittadini di serie A, di serie B, ecc. Siamo sicuri che sia questo che vogliamo? Non è un caso che l'ipotesi di Young finisca in tragedia, cioè nella rivoluzione da parte degli emarginati.
Malgrado della sua origine, la parola è stata recentemente reinterpretata dal Labour Party, il partito di Young, in una accezione opposta. «Meritocrazia» viene letta al positivo, diventa l'emblema della giustizia, dell'etica, è lo slogan della moralizzazione dei costumi. Tanto che lo stesso Young, poco prima di morire, si inalbera rivolgendosi sulla stampa direttamente a Tony Blair, perché ci si astenga dal citarlo a vanvera. Non c'è niente da fare, le parole a volte sono ostinate, cocciute come un mulo, quando vogliono cambiare il loro significato. E così la meritocrazia, da contrapposto antitetico di democrazia, cioè dal suo uso originario, diviene la bandiera del giusto. A questo punto uno studioso del linguaggio dovrebbe distinguere tra etimo, uso originario, e uso comune o volgare (così fa Leibniz nella celebre «Introduzione al Nizolio»).
In nome del mercato
L'etimo è chiaro: da meritum, latino, cosa meritata, ricompensa, premio, oppositivamente a castigo, pena. Dal greco meris, parte, pezzo, porzione, meros, parte, ma anche funzione, carica, dunque anche competenza, lucro, guadagno, moira, di nuovo parte, porzione, di cibo ad esempio, da cui parte assegnata a ciascuno, per cui anche sorte, fato, destino. E ancora, merizo, distribuisco, mermairo, partecipo. Tutto ciò, in conclusione, che abilita alla lode o al biasimo, alla ricompensa o alla pena, in base a un discrimine.
Meglio occuparsi dell'accezione d'uso prevalsa modernamente. Meritocrazia è la nuova morale dell'accademia, il senso della moralizzazione antibaronale. Le scelte le devono fare i migliori, pare ovvio, le decisioni devono essere prese dai migliori, soggetti di cui disponiamo per competenze, attitudini e prestazioni nel campo rilevante. Per il bene sociale, naturalmente. Il quale, altrettanto naturalmente, non può che consistere nella crescita economica. Da cui l'inevitabile conseguenza che a determinare i detentori del merito debba essere, in via definitiva, il dio mercato.
Vi sono varie questioni, e piuttosto sottili, che possono essere suscitate anche solo a prendere nel senso migliore l'accezione corrente, ossia prescindendo dall'assunzione che i soli valori di mercato debbano assurgere ad arbitro della valutazione. Poniamo che si assumano invece valori elevati e condivisi. Il panorama risulta tuttavia tutt'altro che chiaro. Chi l'ha detto, ad esempio, che le scelte dei migliori siano le scelte migliori? E, più ancora, in che misura le decisioni migliori siano anche decisioni (moralmente) giuste? Una società ispirata a una struttura meritocratica è una società giusta?
Se la meritocrazia vuole essere il governo dei migliori, si impone poi un'altra problematica estremamente scabrosa. Migliori rispetto a quali proprietà? E, ammesso che si possa rispondere con coerenza e in modo adeguato a questa difficilissima questione, dovremo poi chiederci quali siano i mezzi per individuare tali pretesi migliori, e, infine, se tali mezzi siano a nostra disposizione. Banalmente, si seleziona meglio con un tema, o con i quiz a domanda multipla? Meglio una monografia o cinque articoli? È più importante dimostrare un teorema di matematica o scoprire la volatilità di un composto chimico? E di Leopardi, poi, che ne facciamo? Meglio uno che sappia il greco, o magari invece ci confonde le idee?
A caccia di competenze
Il tema, proposto volutamente in termini paradossali, è tuttavia estremamente cogente; e può essere affrontato razionalmente, se si vogliono perseguire risultati effettivi e in tempi ragionevoli, solo pagando un tributo al pragmatismo (in senso filosofico): un'idea è tanto migliore quanto migliori sono le conseguenze che determina. Così, nello spirito di How to make our ideas clear, proviamo a pensare, comparativamente, al processo di reclutamento che si avrebbe ad Harvard e alla Sapienza di Roma, a fronte del bisogno di un nuovo insegnante, per una materia fondamentale e imprescindibile, per esempio per l'improvvisa dipartita del precedente titolare (non necessariamente nefasta). Da un lato l'agile e immediata analisi delle «teste» migliori sulla piazza, la trattativa, l'accordo; due tre mesi e il processo è concluso, gli studenti avranno un buon corso, e un docente, forse non il migliore in assoluto, ma un buon docente. Vogliamo fare una simulazione del processo italiano? Blocco del turn-over, settori disciplinari, superamento delle mediane, abilitazione, chiamata locale, punti-organico. Ammesso (e tutt'altro che concesso) che si possa prima o poi uscire dall'attuale stato di coma profondo in cui è ora incagliata la procedura, poniamoci alcune semplici domande: a) quanto tempo è durato il processo? b) gli studenti avranno nel frattempo avuto un «buon corso»? c) avremo selezionato il migliore, o, quanto meno, un «buon» insegnante? Poi c'è il fattore del periodo: dal 2008 al 2012, nessun reclutamento. E allora come si fa? Prendiamo Tizio, che fa solo 60 ore, e quindi possiamo costringerlo a farne altre 60. Manca «analisi I» per Ingegneria? La affidiamo a lui, tanto un po' di matematica la sa. Magari studia e insegna altro, ma è dello stesso settore disciplinare, si arrangerà. È tempo di recuperare un po' di allegria, giusto per non cadere in quella che Kierkegaard chiamava la malattia mortale, la disperazione.
Proviamo a immaginarci di raccontare il processo suddetto a un collega di Harvard, e immaginiamoci la sua faccia. C'è Caio, che è un genio in analisi I, ed è anche libero. Perché non lo potete assumere? Ma perché non supera le mediane! Le mediane?, chiede sorpreso. La spiegazione potrebbe essere questa: «Ecco, vedi, in Italia il calcio è lo sport nazionale, e così abbiamo anche il calcio femminile, con il suo campionato. Così le mediane sono quelle che giocano a centrocampo».
In compenso abbiamo assimilato, e dunque, concorsualmente uguagliato, discipline come estetica, semiologia, filosofia del linguaggio, linguistica. Un bel frullato di cavoli, merende e cocomeri. Oppure logica e storia della scienza, che c'entrano come il diavolo, l'acqua santa e le angurie, tanto per schierarci per la variatio rispetto alla concinnitas. Il tema della gerarchia delle scienze è un classico della storia del pensiero, e ci si sono cimentate le menti più eccelse, a partire dai Secondi analitici di Aristotele. E che dire di Leibniz? E degli enciclopedisti del '700? Enormi sforzi profuse poi su questo il positivismo, a cominciare da Comte. Ogni teoria, pur con tutta la sua forza esplicativa, le preziose analisi e i suggestivi suggerimenti, è passibile di critiche radicali, ha forti componenti ideologiche (si confrontino la gerarchia delle scienze del positivismo e quella contemporaneamente esposta da Benedetto Croce); nessun pensatore, per quanto geniale, ha raggiunto compiutamente il suo scopo, e la materia è oggetto del dibattito ora più che mai. Mentre invece il Miur l'ha risolta, ma non lo notifica al mondo.
L'oligarchia universitaria
Torniamo alla fonte che ha determinato la genesi della parola «meritocrazia». Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo (oggi in accademia si direbbe governance, vuol dire la stessa cosa, ed è anche più lunga, ma fa figo): la monarchia, o governo di uno solo, la aristocrazia, o governo dei migliori, e la democrazia, o governo del popolo. Ogni forma di governo ha una forma degenere: la monarchia può divenire tirannide, l'aristocrazia oligarchia, la democrazia demagogia. Abbiamo esperienza storica recente di tutti questi casi. Ad esemplificare la prima è facile citare Hitler o Mussolini; per la demagogia la nostra stessa generazione ha ampiamente già dato, con «Il grande fratello» e il bunga bunga, conditi assieme a un milione di posti di lavoro, al calo delle tasse e alla ricostruzione dell'Aquila. Dell'oligarchia ci ha ben provvisti Maria Stella Gelmini, trasformando l'Università in una struttura rigidamente oligarchica e perfino in una certa accezione eterodiretta (il mercato, i privati, ecc.). Ma, ecco, per non farci mancare niente, ora abbiamo acquisito la meritocrazia, che può essere altrettanto bene considerata una degenerazione tanto degli aspetti migliori dell'aristocrazia che della democrazia.
Sabino Cassese, nel recente intervento al convegno di Roars (https://www.roars.it/online/lanvur-ha-ucciso-la-valutazione-viva-la-valutazione/) ricorda opportunamente i periodi in cui il sapere innovativo si collocava fuori dall'accademia, il Seicento, il Settecento: Spinoza, Leibniz, Cartesio ecc. Il medioevo aveva dei valori, discutibili e per molti errati; nel Seicento e nel Settecento la ricerca «vera» era invece consegnata a singoli idealisti (in senso volgare e non filosofico), come Spinoza o Cartesio. Oggi la cloche dello strano velivolo che dovrebbe trasmettere il sapere e formare passa alle multinazionali, il che è molto peggio del dovere mantenere i vizi di una decina di «furbetti».
È un po' come nella vicenda «tangentopoli 1». Molti si sono scandalizzati del 10% di prebende pagate ai corrotti (prevalentemente esponenti di alcuni partiti politici). Mentalità da poliziotto. Il vero danno è stato quello di selezionare i peggiori per ogni appalto, per ogni commessa. E questo è un danno che va ben oltre al 10% pagato al faccendiere di turno, o all'olgettina al caso privilegiata. Attualmente, nelle università vediamo dispensare pillole di sapere pagando milioni di euro, oppure proporre portali da 70 milioni (quando un buon sito internet può costare al più due ordini di grandezza in meno), affido milionario a multinazionali di cose che una piccola o media impresa (o Sme in europeese) avrebbe fatto meglio, e per un decimo. Questi sono i veri sprechi, che una burocrazia incolta e disinformata non è in grado di valutare. E questi sono veri e propri atti di delinquenza, che gridano vendetta a fronte dei tagli al diritto allo studio, alle carriere dei giovani, e, last but not least a quelle piccole imprese che fanno onestamente il loro lavoro, senza avere spie o faccendieri prezzolati presso i ministeri.
I trabocchetti del neoliberismo
Si apre la mela, ed è marcia. La putredine offusca le narici. Italia del malaffare, di cui i saputi tecnici ministeriali sono correi, anche se magari non consci. Un ministro del lavoro che sbaglia il numero degli «esodati» da 50mila a 500mila. Questi sono i conti dei nostri tecnici, da qui uno si può fare un'idea dell'affidabilità dei conti del personale politico. Nell'ideologia fascista dominava l'idea della prevalenza del sistema dei tecnici sui politici. I fasci e le corporazioni, e l'inutilità del Parlamento. Era un'ideologia anche quella; ma era un'ideologia.
Il vuoto pneumatico del nostro aulente ministro dell'università, il dare per scontato la misurazione della cultura sulla immediata ricaduta sul mercato, la meritocrazia come alibi per il recupero di una fittizia dimensione etica, questi sono i veri trabocchetti di un neo-liberismo dal volto apparentemente umano, e nei fatti men che scimmiesco.
Malgrado della sua origine, la parola è stata recentemente reinterpretata dal Labour Party, il partito di Young, in una accezione opposta. «Meritocrazia» viene letta al positivo, diventa l'emblema della giustizia, dell'etica, è lo slogan della moralizzazione dei costumi. Tanto che lo stesso Young, poco prima di morire, si inalbera rivolgendosi sulla stampa direttamente a Tony Blair, perché ci si astenga dal citarlo a vanvera. Non c'è niente da fare, le parole a volte sono ostinate, cocciute come un mulo, quando vogliono cambiare il loro significato. E così la meritocrazia, da contrapposto antitetico di democrazia, cioè dal suo uso originario, diviene la bandiera del giusto. A questo punto uno studioso del linguaggio dovrebbe distinguere tra etimo, uso originario, e uso comune o volgare (così fa Leibniz nella celebre «Introduzione al Nizolio»).
In nome del mercato
L'etimo è chiaro: da meritum, latino, cosa meritata, ricompensa, premio, oppositivamente a castigo, pena. Dal greco meris, parte, pezzo, porzione, meros, parte, ma anche funzione, carica, dunque anche competenza, lucro, guadagno, moira, di nuovo parte, porzione, di cibo ad esempio, da cui parte assegnata a ciascuno, per cui anche sorte, fato, destino. E ancora, merizo, distribuisco, mermairo, partecipo. Tutto ciò, in conclusione, che abilita alla lode o al biasimo, alla ricompensa o alla pena, in base a un discrimine.
Meglio occuparsi dell'accezione d'uso prevalsa modernamente. Meritocrazia è la nuova morale dell'accademia, il senso della moralizzazione antibaronale. Le scelte le devono fare i migliori, pare ovvio, le decisioni devono essere prese dai migliori, soggetti di cui disponiamo per competenze, attitudini e prestazioni nel campo rilevante. Per il bene sociale, naturalmente. Il quale, altrettanto naturalmente, non può che consistere nella crescita economica. Da cui l'inevitabile conseguenza che a determinare i detentori del merito debba essere, in via definitiva, il dio mercato.
Vi sono varie questioni, e piuttosto sottili, che possono essere suscitate anche solo a prendere nel senso migliore l'accezione corrente, ossia prescindendo dall'assunzione che i soli valori di mercato debbano assurgere ad arbitro della valutazione. Poniamo che si assumano invece valori elevati e condivisi. Il panorama risulta tuttavia tutt'altro che chiaro. Chi l'ha detto, ad esempio, che le scelte dei migliori siano le scelte migliori? E, più ancora, in che misura le decisioni migliori siano anche decisioni (moralmente) giuste? Una società ispirata a una struttura meritocratica è una società giusta?
Se la meritocrazia vuole essere il governo dei migliori, si impone poi un'altra problematica estremamente scabrosa. Migliori rispetto a quali proprietà? E, ammesso che si possa rispondere con coerenza e in modo adeguato a questa difficilissima questione, dovremo poi chiederci quali siano i mezzi per individuare tali pretesi migliori, e, infine, se tali mezzi siano a nostra disposizione. Banalmente, si seleziona meglio con un tema, o con i quiz a domanda multipla? Meglio una monografia o cinque articoli? È più importante dimostrare un teorema di matematica o scoprire la volatilità di un composto chimico? E di Leopardi, poi, che ne facciamo? Meglio uno che sappia il greco, o magari invece ci confonde le idee?
A caccia di competenze
Il tema, proposto volutamente in termini paradossali, è tuttavia estremamente cogente; e può essere affrontato razionalmente, se si vogliono perseguire risultati effettivi e in tempi ragionevoli, solo pagando un tributo al pragmatismo (in senso filosofico): un'idea è tanto migliore quanto migliori sono le conseguenze che determina. Così, nello spirito di How to make our ideas clear, proviamo a pensare, comparativamente, al processo di reclutamento che si avrebbe ad Harvard e alla Sapienza di Roma, a fronte del bisogno di un nuovo insegnante, per una materia fondamentale e imprescindibile, per esempio per l'improvvisa dipartita del precedente titolare (non necessariamente nefasta). Da un lato l'agile e immediata analisi delle «teste» migliori sulla piazza, la trattativa, l'accordo; due tre mesi e il processo è concluso, gli studenti avranno un buon corso, e un docente, forse non il migliore in assoluto, ma un buon docente. Vogliamo fare una simulazione del processo italiano? Blocco del turn-over, settori disciplinari, superamento delle mediane, abilitazione, chiamata locale, punti-organico. Ammesso (e tutt'altro che concesso) che si possa prima o poi uscire dall'attuale stato di coma profondo in cui è ora incagliata la procedura, poniamoci alcune semplici domande: a) quanto tempo è durato il processo? b) gli studenti avranno nel frattempo avuto un «buon corso»? c) avremo selezionato il migliore, o, quanto meno, un «buon» insegnante? Poi c'è il fattore del periodo: dal 2008 al 2012, nessun reclutamento. E allora come si fa? Prendiamo Tizio, che fa solo 60 ore, e quindi possiamo costringerlo a farne altre 60. Manca «analisi I» per Ingegneria? La affidiamo a lui, tanto un po' di matematica la sa. Magari studia e insegna altro, ma è dello stesso settore disciplinare, si arrangerà. È tempo di recuperare un po' di allegria, giusto per non cadere in quella che Kierkegaard chiamava la malattia mortale, la disperazione.
Proviamo a immaginarci di raccontare il processo suddetto a un collega di Harvard, e immaginiamoci la sua faccia. C'è Caio, che è un genio in analisi I, ed è anche libero. Perché non lo potete assumere? Ma perché non supera le mediane! Le mediane?, chiede sorpreso. La spiegazione potrebbe essere questa: «Ecco, vedi, in Italia il calcio è lo sport nazionale, e così abbiamo anche il calcio femminile, con il suo campionato. Così le mediane sono quelle che giocano a centrocampo».
In compenso abbiamo assimilato, e dunque, concorsualmente uguagliato, discipline come estetica, semiologia, filosofia del linguaggio, linguistica. Un bel frullato di cavoli, merende e cocomeri. Oppure logica e storia della scienza, che c'entrano come il diavolo, l'acqua santa e le angurie, tanto per schierarci per la variatio rispetto alla concinnitas. Il tema della gerarchia delle scienze è un classico della storia del pensiero, e ci si sono cimentate le menti più eccelse, a partire dai Secondi analitici di Aristotele. E che dire di Leibniz? E degli enciclopedisti del '700? Enormi sforzi profuse poi su questo il positivismo, a cominciare da Comte. Ogni teoria, pur con tutta la sua forza esplicativa, le preziose analisi e i suggestivi suggerimenti, è passibile di critiche radicali, ha forti componenti ideologiche (si confrontino la gerarchia delle scienze del positivismo e quella contemporaneamente esposta da Benedetto Croce); nessun pensatore, per quanto geniale, ha raggiunto compiutamente il suo scopo, e la materia è oggetto del dibattito ora più che mai. Mentre invece il Miur l'ha risolta, ma non lo notifica al mondo.
L'oligarchia universitaria
Torniamo alla fonte che ha determinato la genesi della parola «meritocrazia». Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo (oggi in accademia si direbbe governance, vuol dire la stessa cosa, ed è anche più lunga, ma fa figo): la monarchia, o governo di uno solo, la aristocrazia, o governo dei migliori, e la democrazia, o governo del popolo. Ogni forma di governo ha una forma degenere: la monarchia può divenire tirannide, l'aristocrazia oligarchia, la democrazia demagogia. Abbiamo esperienza storica recente di tutti questi casi. Ad esemplificare la prima è facile citare Hitler o Mussolini; per la demagogia la nostra stessa generazione ha ampiamente già dato, con «Il grande fratello» e il bunga bunga, conditi assieme a un milione di posti di lavoro, al calo delle tasse e alla ricostruzione dell'Aquila. Dell'oligarchia ci ha ben provvisti Maria Stella Gelmini, trasformando l'Università in una struttura rigidamente oligarchica e perfino in una certa accezione eterodiretta (il mercato, i privati, ecc.). Ma, ecco, per non farci mancare niente, ora abbiamo acquisito la meritocrazia, che può essere altrettanto bene considerata una degenerazione tanto degli aspetti migliori dell'aristocrazia che della democrazia.
Sabino Cassese, nel recente intervento al convegno di Roars (https://www.roars.it/online/lanvur-ha-ucciso-la-valutazione-viva-la-valutazione/) ricorda opportunamente i periodi in cui il sapere innovativo si collocava fuori dall'accademia, il Seicento, il Settecento: Spinoza, Leibniz, Cartesio ecc. Il medioevo aveva dei valori, discutibili e per molti errati; nel Seicento e nel Settecento la ricerca «vera» era invece consegnata a singoli idealisti (in senso volgare e non filosofico), come Spinoza o Cartesio. Oggi la cloche dello strano velivolo che dovrebbe trasmettere il sapere e formare passa alle multinazionali, il che è molto peggio del dovere mantenere i vizi di una decina di «furbetti».
È un po' come nella vicenda «tangentopoli 1». Molti si sono scandalizzati del 10% di prebende pagate ai corrotti (prevalentemente esponenti di alcuni partiti politici). Mentalità da poliziotto. Il vero danno è stato quello di selezionare i peggiori per ogni appalto, per ogni commessa. E questo è un danno che va ben oltre al 10% pagato al faccendiere di turno, o all'olgettina al caso privilegiata. Attualmente, nelle università vediamo dispensare pillole di sapere pagando milioni di euro, oppure proporre portali da 70 milioni (quando un buon sito internet può costare al più due ordini di grandezza in meno), affido milionario a multinazionali di cose che una piccola o media impresa (o Sme in europeese) avrebbe fatto meglio, e per un decimo. Questi sono i veri sprechi, che una burocrazia incolta e disinformata non è in grado di valutare. E questi sono veri e propri atti di delinquenza, che gridano vendetta a fronte dei tagli al diritto allo studio, alle carriere dei giovani, e, last but not least a quelle piccole imprese che fanno onestamente il loro lavoro, senza avere spie o faccendieri prezzolati presso i ministeri.
I trabocchetti del neoliberismo
Si apre la mela, ed è marcia. La putredine offusca le narici. Italia del malaffare, di cui i saputi tecnici ministeriali sono correi, anche se magari non consci. Un ministro del lavoro che sbaglia il numero degli «esodati» da 50mila a 500mila. Questi sono i conti dei nostri tecnici, da qui uno si può fare un'idea dell'affidabilità dei conti del personale politico. Nell'ideologia fascista dominava l'idea della prevalenza del sistema dei tecnici sui politici. I fasci e le corporazioni, e l'inutilità del Parlamento. Era un'ideologia anche quella; ma era un'ideologia.
Il vuoto pneumatico del nostro aulente ministro dell'università, il dare per scontato la misurazione della cultura sulla immediata ricaduta sul mercato, la meritocrazia come alibi per il recupero di una fittizia dimensione etica, questi sono i veri trabocchetti di un neo-liberismo dal volto apparentemente umano, e nei fatti men che scimmiesco.