Il precariato azzoppa la ricerca
Intervista a Luigi Nicolais. Il neo presidente del Cnr avverte: senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. «Un Paese come l’Italia, basato sulla piccola e media
di Cristiana Pulcinelli
Il Cnr è nato molti anni fa come un ente in cui si svolgeva ricerca di base e applicata. E questo è ancora il suo ruolo. Oggi rappresenta una grande opportunità per il Paese perché vi lavorano 8000 persone, di cui oltre 4000 sono ricercatori e tecnologi. Insieme formano una massa critica interessante che opera in vari settori. L’importante è che interagisca di più con l’università, con l’impresa e con altri enti pubblici ». È un Cnr legato al passato ma proiettato al futuro quello che immagina Luigi Nicolais, ingegnere chimico nominato meno di un mese fa presidente del più grande ente di ricerca del nostro paese al posto del ministro Profumo.
Fresco di nomina, lei ha affermato: «Darò il mio contributo per ridurre la burocrazia, aumentare l’efficienza e consolidarela fiducia».Concretamente cosa pensa di fare? «Prima di tutto bisogna dematerializzare. Evitare, cioè, che i ricercatori debbano usare il loro tempo per scrivere carte che servono solo a fini burocratici. I controlli vanno fatti, ma si deve rendere più snello il sistema. Un’altra cosa che voglio fare è costruire una biblioteca virtuale centralizzata in cui ogni ricercatore possa avere accesso immediato a qualsiasi rivista. In questo modo i singoli istituti non dovrebbero più abbonarsi alle riviste scientifiche, si eviterebbero doppioni e si ridurrebbero i costi. Non tutti sanno che un abbonamento a una rivista scientifica costa anche migliaia di euro all’anno».
Lei parla di incentivare le relazioni con le imprese. Qual sono oggi queste relazioni? «In alcuni settori sono già buone. Credo però che vadano incentivate sia perché non ci sono fondi pubblici a sufficienza per poter fare ricerca basandosi solo su quelli, sia perché il trasferimento della ricerca sviluppata nei laboratori sarebbe utile a tutti».
Non le sembra che l’industria italiana sia poco interessata alla ricerca? «Questo dipende dalla dimensioni delle nostre imprese. In Italia ci sono per lo più piccole e medie imprese che non possono fare ricerca come le grandi,ma possono assorbire le conoscenze dagli enti di ricerca per fare innovazione. Qui gioca un ruolo importante il Cnr. Solo finanziando la ricerca pubblica sviluppata nei nostri laboratori e valorizzando i risultati potremo offrire alle imprese reali possibilità di innovazione e competitività».
Cosa pensa del bandoPrin 2010e del fatto che vi possono accedere solo le università e non gli enti di ricerca? «Abbiamo fatto da poco una riunione con il ministro proprio su questi temi. Il fatto è che gli enti di ricerca devono interagire di più con le università e lo devono fare alla pari. Le norme esistenti non prevedono questa osmosi, per ottenerla dobbiamo cambiare le regole. Credo che sarebbe un bene per tutti. Gli enti di ricerca avrebbero il vantaggio di entrare in contatto con i giovani delle università che sono una spinta importante alla ricerca; l’università avrebbe accesso a grandi laboratori con apparecchiature moderne e molti ricercatori».
Abbiamo parlato dei rapporti con l’impresa e con l’università. E con la politica? «Uno dei problemi del nostro Paese è che noi ricercatori non abbiamo molto curato la nostra immagine nella società. Per anni abbiamo pensato che dovevamo fare le nostre ricerche senza confonderci con chi non sapesse di scienza. Invece, oggi abbiamo capito quanto sia importante avere credibilità nella società. La politica è lo specchio della società: se i cittadini si convincono che la ricerca è centrale, il politico si deciderà a finanziarla. Dobbiamo scendere dalla torre d’avorio e interagire con i cittadini e con i politici. Naturalmente però la politica non deve né condizionare né orientare la ricerca, che deve essere sempre autonoma, indipendente, libera. Discutere su quello che lo scienziato può o non può fare è un errore: non si può limitare l’attività creativa del ricercatore, ma solo l’uso dei risultati».
E la valutazione all’interno della comunità scientifica? «È essenziale. Noi siamo abituati ad essere valutati: il ricercatore che pubblica su riviste internazionali è continuamente sottoposto a giudizio, ma quando la valutazione diventa sistema ci preoccupa. Forse perché in Italia, da un punto di vista culturale, la valutazione è vista come punizione. Nel mondo anglosassone valutazione significa possibilità di crescita. Quando insegnavo negli Usa, tutti gli anni venivo valutato dai miei studenti ed ero contento perché mi aiutava a migliorare. Bisogna cambiare la mentalità. Del resto, senza valutazione non c’è autonomia ma solo caos».
Come si scelgono i settori strategici su cui investire? «Il programma Horizon 2020 già ci dà indicazioni sulle strategie del sistema Europa. Noi dobbiamo capire in quali aree siamo maggiormente attrattivi e competitivi. E lo siamo sicuramente, per esempio, nelle biotecnologie e nella meccanica di precisione: in questi settori possiamo continuare a lavorare. Ma non possiamo inventarci oggi delle competenze dal nulla o ripescarle da un passato dismesso. Ad esempio, la ricerca sul nucleare è stata abbandonata dal nostro Paese anni orsono, tornarci oggi non sarebbe adeguato. Ma bisogna stare attenti perché se ci muovessimo solo nella direzione indicata dalle strategie europee e non lasciassimo anche spazi alla ricerca spinta dalla curiosità, rischieremmo di essere pronti sul breve ma non sul medio lungo periodo. Una parte dei finanziamenti va assicurata a giovani che vogliono fare ricerche al di fuori dei settori strategici».
A proposito di giovani, come possiamo far loro ritrovare la voglia di scegliere la scienza come lavoro? «Altri Paesi come la Finlandia o il Canada hanno cominciato dalla scuola primaria: insegnare la bellezza di trovare qualcosa di nuovo, far sviluppare la curiosità, sono essenziali per il ricercatore. Lo scienziato è uno che riesce a pensare l’inimmaginabile. Va quindi sviluppata l’attività creativa. Ma non basta: bisogna creare una filiera attenta alla ricerca, dalla scuola primaria all’impresa». Eppure nelle imprese del nostro Paese, dice l’indagine europea sull’innovazione pubblicata recentemente, ci sono pochi laureati. Come mai? «Il problema è sempre la dimensione: la percentuale di laureati nelle grandi imprese è più alta, diminuisce invece in quelle medie e piccole. In generale, vale la regola che in un Paese più laureati ci sono, meglio è. Quindi va sicuramente incentivato l’ingresso nelle università. Di conseguenza vanno incentivate e favorite le attrazioni e gli insediamenti di grandi imprese a forte base di conoscenza capaci di assorbirli adeguatamente nei loro organici e garantire loro unsuccesso professionale ed umano. Come del resto hannofatto e stanno facendo i Paesi emergenti, India, Singapore, Corea del Sud, Brasile e Cina».
Lei ha scritto che oggi creatività e vocazione non bastano più per fare scienza. Cos’altro ci vuole? «Ci vogliono condizioni al contorno adeguate. Senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. Perché tutti sono pronti ad accettare un periodo di precariato, ma dire che in queste condizioni si produce meglio non è vero».