Il (poco) fascino della matematica e quell'ossessione per voti e crediti
di Maria Laura Rodotà
«L a matematica non sarà mai il mio mestiere»
(Antonello Venditti, «Notte prima degli esami»). Lo ripetono adolescenti che disprezzano i cantautori dell'adolescenza dei loro anziani. Lo canticchiano anziani a cui la matematica continua a rovinare l'estate, andavano male loro e vanno male i figli. Per loro, c'è un editoriale del «New York Times» provocatorio e consolatorio. In cui si sostiene che la troppa matematica obbligatoria «ci impedisce di scoprire e coltivare un'infinità di giovani talenti». E che poi, «solo il 5 per cento dei primi impieghi richiederà loro di conoscere l'algebra». E che bisognerebbe studiare «gli algoritmi alla base dei film d'animazione, delle strategie d'investimento e dei prezzi dei biglietti aerei», non la matematica tradizionale. Lo scrive un umanista confesso, Andrew Hacker, professore emerito di Scienze politiche alla City University of New York. Convinto che l'accanimento matematico provochi abbandono scolastico e crisi di autostima; e finisca per escludere dalle migliori università molti studenti intelligenti, energici, carismatici, creativi, e negati per le equazioni. Ovviamente: sul sito del «Times» sono comparsi centinaia di commenti di ingegneri indignati; che notano come arrendersi e non studiare matematica vuol dire avviarsi a diventare un Paese del Terzo mondo. Ovviamente: sul sito del «Times» non ha scritto la maggioranza asina in matematica e perciò silenziosa. Tutti potrebbero essere d'accordo, però, sulla questione che Hacker solleva: la scuola occidentale sta diventando sempre più ragionieristica-ossessiva (con tutto il rispetto verso i ragionieri e gli ossessivi) nel calcolo di voti e crediti, e sempre meno capace di individuare e formare talenti diversi (questa è una discussione estiva da fare nelle ore fresche, comunque, attenzione).