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Il Piccolo-Scuola a richiesta. Fatta e disfatta

Contributo al dibattito sulla riforma Moratti nell'ultimo numero del "Mulino" Scuola a richiesta. Fatta e disfatta Due punti dolenti: il nuovo ruolo delle famiglie e l'autonomia ...

07/05/2004
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Il Piccolo

Contributo al dibattito sulla riforma Moratti nell'ultimo numero del "Mulino"
Scuola a richiesta. Fatta e disfatta
Due punti dolenti: il nuovo ruolo delle famiglie e l'autonomia


RIVISTE
Da quando, nello scorso settembre, il testo del decreto legislativo su scuola dell'infanzia e primo ciclo dell'istruzione è stato presentato in Consiglio dei ministri, fino alle date recenti della sua definitiva approvazione, è cresciuta nel Paese una protesta in larga parte spontanea che la maggioranza non ha esitato a liquidare come variante tematica del dissenso antigovernativo. Come si trattasse di un'opposizione tutta politica e pregiudiziale alla firma più che al testo, alla radice più che al frutto - insomma alla Moratti e a Berlusconi, più che al merito del provvedimento.
Nel mirino dell'opposizione sono finite, a turno e globalmente, tutte le novità contenute nel decreto; ma non vi è dubbio che il fuoco della contestazione si sia concentrato sulla questione del tempo pieno. Vi è forse una qualche dose di conservatorismo nel vigoroso "no" che i partiti del centrosinistra, i sindacati e soprattutto una piazza agguerrita hanno a più riprese pronunciato contro il ridisegno dell'offerta educativa della scuola primaria. Si tratta, almeno in parte, del riflesso difensivo - quasi pavloviano - che scatta tutte le volte che uno stato di fatto regolato dalla legge, consolidato nel tempo e percepito collettivamente come bene non disponibile, valore in sé, diritto assoluto, diviene materia di discussione o, peggio, di cambiamento. Come, in altro ambito, è per esempio accaduto in tema di legislazione sul lavoro (vedi lo scontro sull'art. 18), anche in questo caso la sacralizzazione della norma si fa ostacolo a qualunque ipotesi di modifica, per quanto parziale.
Ben al di là dell'assetto didattico e del progetto pedagogico in sé, è infatti l'immagine mitica del tempo pieno come "conquista sociale" e "modello educativo" che porta a considerare ogni correzione di rotta, ogni alterazione anche soltanto organizzativa come un "attentato", un "attacco", un "progetto di eliminazione" e via di seguito. È utile ricordare, del resto, che anche in margine alla riforma della scuola elementare del 1985 - riforma peraltro fortemente sostenuta dai sindacati e da tutta la sinistra - non mancarono i mugugni, i sospetti e qualche polemica da parte di chi temeva che il modulo, introdotto accanto al tempo pieno, lo avrebbe progressivamente soppiantato. Non meraviglia vedere oggi i paladini del paradigma puro, che allora ne contestavano la contaminazione, scendere in piazza a difenderne la sopravvivenza. Ma accanto a questi, va detto, ha sfilato qualche decina di migliaia di persone. Tutti pasdaran? Forse dietro i miti, tolta pure la doppia crosta delle strumentalizzazioni politiche e delle superfetazioni ideologiche, qualcosa c'è.
Il problema, ormai è certo, non è di quadro orario. Il nuovo congegno garantisce, a chi le chiede, le vecchie 40 ore settimanali di copertura. Ad uno sguardo non pregiudicato, l'introduzione di una maggiore duttilità nella gestione delle risorse umane e nella dislocazione di tempi e modi dell'apprendimento, rispetto all'alternativa secca tempo pieno/modulo, sembrerebbe solo giovare.
Ma di là dalle dichiarazioni di accompagnamento, condite ad ogni piè sospinto dall'omaggio di rigore al totem della "flessibilità", il risultato prodotto non sembra in verità condurre a una maggiore articolazione dell'offerta, quanto piuttosto sembra subordinare questa alla varietà, plurale e puntiforme, della domanda. Tutto il decreto mira infatti a enfatizzare il ruolo delle famiglie, non più chiamate soltanto a farsi parte attiva nel dialogo con gli educatori e negli organi di gestione, ma a diventare soggetto determinante nell'orientare le scelte didattiche, fino a condizionare, in virtù delle loro proposte, il modello organizzativo dell'offerta. In pratica, viene introdotto lo scorporo dell'orario pomeridiano dalla programmazione curricolare e la sua destinazione a riserva "vuota", che le scuole dovranno riempire a seconda di quanto richiesto loro dalle famiglie all'atto dell'iscrizione.
La conseguenza paventata dagli oppositori è che la separazione così netta, e per legge, di mattino e pomeriggio, con relativa concentrazione degli apprendimenti formali nella prima parte della giornata, produca una scuola nella quale non sarà più riconoscibile l'impianto pedagogico attuale, fondato sull'idea che i diversi aspetti e modi e momenti dell'apprendimento nell'età primaria vadano tenuti insieme e agiti in un tempo disteso, continuo, pensato come unitario.
In effetti, a riforma realizzata, non è implausibile lo scenario di una scuola che non riesce più a progettare e reagisce improvvisando alla pressione di sempre nuove e disparate "domande" da parte delle famiglie; ed è altrettanto facile prevedere l'insorgere di difficoltà inedite, così nella continuità del lavoro e nella stabilità dei team, come nel consolidamento e nel trasferimento delle esperienze e delle "buone pratiche". Nonostante lo si taccia o lo si neghi, questo rischio c'è. Viene da chiedersi allora perché, se si voleva davvero soltanto rendere più flessibile il modello attuale, non si sia intervenuti rompendo la rigidità del quadro normativo precedente e, facendo aggio sulla nel frattempo intervenuta autonomia scolastica, non ci si sia limitati ad ampliare il margine di manovra delle scuole in materia di organizzazione e di curricolo, una volta stabiliti, in sede di legge sulle norme generali.
Paolo Ferratini


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