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Il nepotismo all’università: una patologia senza folklore

di Francesco Coniglione

11/08/2014
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ROARS

Uno dei principali capi d’accusa che negli ultimi tempi è stato mosso all’università è quello di praticare il cosiddetto “nepotismo”, per sconfiggere il quella è stata addirittura varata la riforma Gelmini. Sarebbe forse il caso di svolgere in merito alcune considerazioni che mi paiono necessarie se si vuole affrontare tale questione al di fuori delle campagne giornalistiche e dei titoli scandalistici. Innanzi tutto ritengo che bisogna essere cauti nella valutazione dell’estensione e del radicamento del fenomeno, per evitare di incorrere nello stesso inconveniente denunciato da Diagora l’Ateo, raccontato da Cicerone. Quando l’antico filosofo scettico visitò l’isola di Samotracia, un amico, mostrandogli le tavolette votive appese nel famoso tempio del dio Poseidone – protettore dei naviganti –, gli fece notare criticamente: “Tu che non credi nella provvidenza divina, che cosa ne dici di tutti questi ex voto che naufraghi, scampati al pericolo, hanno qui deposto?”. Al che Diagora gli rispose: “Avviene proprio così; infatti i naufraghi che sono annegati non han potuto appendere le loro tavolette in qualche posto”.

Questo episodio – che andrebbe raccontato a tutti i giovani studenti di statistica come, diciamo, “sindrome di Poseidone” – mette in luce un fatto assai importante: a non fidarsi dei casi singoli, della fenomenologia d’accatto, delle narrazioni delle malafatte che, appunto per il loro carattere impressionistico in grado di sollecitare l’indignazione morale per i singoli casi di ingiustizia, fanno tanto effetto. Ad importare veramente è il rapporto tra casi positivi e casi negativi, ovvero l’incidenza percentuale dei casi di nepotismo su quelli in cui esso non ha luogo. Ed ovviamente quando parlo di nepotismo, lo intendo nel senso tecnico del termine, non per riferirmi al ben più complesso e spinoso caso del rapporto maestro-discepolo (senza legami parentali), sul quale ho già espresso in passato la mia personale opinione.

Ma anche qualora si dovesse prestare fede agli studi di Perotti e Allesina sulla diffusione del nepotismo nell’accademia italiana, cosa che richiederebbe un’analisi ad hoc, mi pare che si sia ancora alla semplice constatazione del fenomeno, che richiede ancora una sua spiegazione e comprensione, perché, come afferma Spinoza, bisogna “non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”. Con ciò certo non voglio sostenere che il fenomeno del nepotismo è inesistente o che sia da prendere sottogamba. Niente affatto. Ritengo solo che debba essere inquadrato in un contesto più ampio, per evitare che esso diventi semplicemente un casus belli per la destrutturazione e la delegittimazione dell’uni­versità e per giustificare politiche quali quelle messe in atto da un decennio a questa parte.

Bossi nepotismoE allora – sulla base dell’esperienza personale che ciascuno può avere, perché anche in questo caso mancano delle ricerche effettivamente attendibili – bisogna innanzi tutto chiedersi se il livello di nepotismo esistente all’università sia maggiore di quello che possiamo riscontrare in ogni altra istituzione pubblica (ma anche privata). La risposta sarebbe oltremodo facile: in qualunque comune, provincia o ente “partecipato” il nepotismo è assai più radicato e diffuso che nel mondo accademico, favorito dalla destrutturazione del sistema pubblico dei concorsi, sostituito (specie nelle “partecipate”) dalla chiamata diretta mediante contratti precari, poi stabilizzati e resi a tempo indeterminato. A qualche collega universitario non viene in mente nulla sulla base delle propria esperienza? E da questo punto di vista il mondo universitario resta ancora un’isola felice – metaforicamente parlando – in quanto in esso gran parte del personale docente (almeno nelle discipline meno succulente, come quelle umanistiche) è ancora assunto “per merito”. Certo, da una istituzione come l’università ci si aspetterebbe un “rendimento meritocratico” più elevato di quello di una comune istituzione pubblica, ma per ottenere tale risultato occorrerebbero delle condizioni al contorno ben più significative degli espedienti regolamentari.

E con ciò arriviamo all’ultima considerazione da fare – più importante perché tocca alcune questioni di fondo non solo dell’università, ma del “sistema Italia”. Per introdurre la questione, domandiamoci perché in altri paesi industrialmente avanzati (quelli con i quali – quando fa comodo – ci piace confrontarci) tale fenomeno del nepotismo sembra meno rilevante che in Italia (o non viene posto con altrettanta urgenza). Un docente universitario americano, ad es., si metterebbe a sgomitare per far entrare il proprio figlio all’università, specie se questi ha altre aspirazioni? No di certo: se questi vuol fare l’ingegnare o l’avvocato è molto più facile fargli fare una buona università e quindi lasciargli esercitare la professione nel settore privato: guadagnerebbe molto di più e avrebbe di certo più soddisfazioni. Qui il sistema economico e la struttura sociale sono abbastanza vivaci e aperti (ricordate la “società aperta” di Popper?) per permettere una facile collocazione al di fuori delle mura protettive dell’accademia, nella quale decidono di rimanere coloro che hanno più la passione per la ricerca e meno per i guadagni.

Ma è questa la situazione italiana? Da noi abbiamo una economia stagnante, con un altissimo tasso di disoccupazione giovanile; una società ingessata e sempre più corporativizzata (con il notaio che fa figli notai, e così via); un sistema politico che si è sempre più “castificato” e che ormai va tranquillamente verso la propria autoriproduzione eterna; con ascensori sociali che sono stati praticamente annichiliti (e ormai non mancano le denunce in merito). Insomma abbiamo un sistema sociale e un’economia che non innova (e in ciò v’è la ragione di fondo della mancata esigenza di un alto numero di laureati e dei mancati investimenti in ricerca e sviluppo), che mette ai margini competenze e incompetenze. In queste condizioni si alimentano e si amplificano i mali ampiamenti diagnosticati nella letteratura (familismo amorale ecc.) e in particolare vengono esaltati gli egoismi sociali: chi ha una posizione di potere, sia pur esso un micro-potere, cerca di sfruttarlo come può, innanzi tutto per garantire se stesso arraffando quanto più gli è dato fare e quindi per assicurare ai propri figli una condizione minima di sopravvivenza, che li metta al sicuro da un incerto futuro.

nepotism 1Il professore universitario – il “barone” – non è estraneo a questo generale clima sociale e di conseguenza ne riproduce, nel solo ambiente in cui ha un riconosciuto e sempre più residuale potere, i meccanismi: il nepotismo non è che il frutto di questa generale patologia della società italiana. Ed è quest’ultima che bisogna combattere con tutta la propria forza. Hanno scarsa efficacia, invece, gli appelli alla redenzione morale, le denunce giornalisticamente efficaci, i “regolamenti etici” che si sono dati le università, come anche i vincoli burocratici e normativi di cui è gran dispensatrice l’Anvur al fine di moralizzare concorsi e rendere virtuosi i comportamenti dei docenti universitari. Quando si tratta di sopravvivenza, le logiche spietate dell’evoluzione, il “genio” egoista, finiscono sempre per avere il sopravvento e si può essere sicuri che si troveranno i modi per poter comunque continuare a fare quel che si è fatto.

Se vogliamo dunque parlare seriamente di nepotismo, ed affrontarlo per quel che è, non nascondiamo la testa sotto la sabbia delle facile denunce e delle populistiche indignazioni morali, ma guardiamo in faccia la situazione per quella che è. Magari i nostri sogni notturni ne saranno un po’ turbati, ma almeno ci si metterà sulla buona strada se non per eradicare del tutto e miracolisticamente il male, almeno per compiere un primo passo col diagnosticarlo con maggiore accuratezza.


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