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Il Nabucco e il disimpegno delle classi dirigenti

QUANDO RICCARDO MUTI DIRIGE IL NABUCCO,ALLA FINEDEL«VAPENSIERO» ILPUBBLICO SI ALZA IN PIEDI E TRIBUTA AGLI ARTISTI UNA VERA E PROPRIA OVAZIONE,CHIEDENDOIL BIS

21/07/2013
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l'Unità

Massimo Luciani

ORMAI ACCADE CONTINUAMENTE. QUANDO RICCARDO MUTI DIRIGE IL NABUCCO,ALLA FINEDEL«VAPENSIERO» ILPUBBLICO SI ALZA IN PIEDI E TRIBUTA AGLI ARTISTI UNA VERA E PROPRIA OVAZIONE,CHIEDENDOIL BIS.MERITODEL MAESTRO?Certo. Della qualità dell’orchestra e del coro? Certo. Della musica sublime di Verdi? Certo. Forse, però, c’è qualcosa d’altro, qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la nostra coscienza collettiva. C’è un passaggio del coro, in particolare, che può spiegare molto, quando, in leggero crescendo, sono pronunciate le parole che il librettista, Temistocle Solera, scrisse più di 150 anni or sono: «Oh mia patria sì bella e perduta». Sono parole che trafiggono. Nell’Ottocento erano il grido di dolore per l’occupazione straniera e l’auspicio della liberazione d’Italia. Oggi, battuto finalmente in breccia il rozzo tentativo di appropriarsene per sostenere improbabili cause secessioniste, sono la constatazione del dramma del nostro Paese: bello e ricco di risorse umane e culturali, eppure «perduto». Dovunque si spinga lo sguardo sembra di scorgere macerie: i partiti sbandati, le istituzioni politiche in crisi di legittimazione, la classe dirigente incapace di assolvere il proprio ruolo, l’amministrazione inefficiente, l’opinione pubblica sensibile alle sirene del qualunquismo e del populismo. Di fronte a tutto questo si può reagire in due modi. Ci si può ripiegare su se stessi, rimpiangendo i bei tempi che furono (e che magari, visti meglio, sono meno belli di quanto li immagini il ricordo), o si può agire per uscire dal baratro, per recuperare la coesione e la dignità della comunità politica. Come fare, però, se non ci si piega alla rassegnazione e si sceglie la linea dell’azione? Se tutto è in macerie, a cosa agganciarla? Per la verità, già sarebbe molto se, come si suol dire, ciascuno facesse il suo, nel piccolo o nel grande della dimensione in cui opera. Se, cioè, ciascuno svolgesse il proprio ruolo sociale con dignità e passione, nella consapevolezza che stiamo tutti nella stessa barca. E se, proprio grazie a questa consapevolezza, si rinunciasse alle furberie individuali, che altro non sono che stoltezza collettiva (è anche per questo che il «furbo» italiano se la passa peggio dell’«ingenuo» tedesco). Ma questo, va da sé, non basta, soprattutto nel breve periodo. Qui e ora abbiamo bisogno di una forte iniziativa politica, che sappia cogliere la reale dimensione dei problemi e mobilire le risorse umane che ancora abbiamo e che possiedono le potenzialità per risolverli. Ed è qui che stanno le difficoltà, perché (in buona compagnia con un pezzo significativo di intellettualità) i soggetti della politica, che dovrebbero essere portatori di questa iniziativa, non sembrano consapevoli della reale dimensione dei problemi. Si discute ferocemente delle regole del congresso di un partito. È comprensibile. Non sarebbe possibile, però, dedicare anche solo un decimo delle energie profuse in quella discussione ad una riflessione su quali sono i referenti sociali e culturali di cui quel partito è espressione e sulle conseguenze in termini di politiche pubbliche che dovrebbero trarsene? Ci si preoccupa delle sorti personali del leader di un altro partito. È comprensibile. Ma chi le ha tanto a cuore non potrebbe anche cogliere il fatto che il proprio stesso destino è legato alla capacità di lettura della realtà del Paese? Una volta di più, è questione di cultura politica. La tattica dell’immagine, dell’annuncio, delle riforme abborracciate e affrettate per rispondere alla pressione (né ingenua, né disinteressata) dei media continua ad essere praticata, ma si dovrebbe capire che ha fatto il suo tempo. Non di tattica, ma di strategia, adesso, abbiamo bisogno. La riforma della politica non può agganciarsi che alla politica. Eppure la classe che all’attività politica si dedica sembra restare sorda, nonostante che anche l’istinto di sopravvivenza suggerisca di cambiare registro. Qualche esempio? C’è l’imbarazzo della scelta. Si spende la parola d’ordine delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Ma ci si chiede perché, davvero, le si dovrebbe fare? Ci si chiede chi ci perda e chi ci guadagni? Si hanno chiari in mente gli interessi sociali che sono a favore e contro e si immaginano i relativi saldi in termini di consenso politico? Non credo. Si promette con entusiasmo la riduzione dei costi della politica. Ma si è rinunciato a spiegare che la politica democratica non può non costare? Si è deciso di abbandonare la distinzione fra gli sprechi e i costi che non si possono non sostenere perché la politica offra le prestazioni di integrazione e di governo che è tenuta a dare? Non si è più in grado di elaborare un semplice calcolo costi-benefici quando si propone - che so - di eliminare senza distinguo tutti i piccoli Comuni (compresi quelli montani, che presidiano territori altrimenti votati all’abbandono)? Non credo. La realtà è che, ormai, l’attenzione spasmodica per la leadership (che, pure, è importante) ha cancellato quella per i contenuti delle politiche pubbliche. Leggevo, qualche giorno addietro, le memorie di Ivanoe Bonomi. Nell’aprile del ’44, racconta il futuro presidente del Consiglio, la politica italiana era paralizzata dai veti reciproci e dalla questione istituzionale. Quando giunse «miracolosamente da plaghe lontane un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo». Era Palmiro Togliatti, la cui «svolta di Salerno» consentì la formazione del governo Badoglio e l’inizio della transizione alla democrazia. Questo accadde, è vero. Ma non è detto che accada ancora. E la nostra classe politica non può limitarsi a sperare che un qualche miracoloso Lohengrin, presente o futuro, di destra o di sinistra, la salvi dal destino che può travolgere chi non sa più esercitare le proprie funzioni sistemiche. Portando con sé, purtroppo, l’Italia intera. Bella e perduta


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