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Il merito nella scuola pubblica

La scuola pubblica non sembra capace di dare il meglio di sé se non viene assoggettata alla logica economica della competizione per il guadagno

06/06/2012
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la Repubblica

NADIA URBINATI
 

La scuola pubblica non sembra capace di dare il meglio di sé se non viene assoggettata alla logica economica della competizione per il guadagno. Questa sembra la filosofia che ispira il “pacchetto merito” proposto in questi giorni dal ministro Profumo e che ha provocato molte reazioni critiche. L’obiettivo di questa filosofia della formazione come “corsa a ostacoli”, secondo l’espressione usata da Alberto Asor Rosa scrivendo su questo giornale, dovrebbe essere quello di fare della scuola un’impresa che premia il merito. La promozione, le gratificazioni morali, non sono abbastanza attraenti. Occorre un premio tangibile, e che sia individuale, che non ricompensi semplicemente la partecipazione all’impresa educativa. Esponendo questo paradigma quantitativo di traduzione del merito, Asor Rosa motivava le sue forti perplessità e invitava ad aprire una riflessione sulla scuola pubblica, sul significato di merito e sul senso stesso della competizione nel processo formativo. L’invito dovrebbe essere accolto. Anche per avviare un esame critico di quel che è ormai diventato un paradigma dei governi italiani: mettere mano al riordino della scuola, con esiti spesso confusi, che tagliano risorse peggiorando la qualità del servizio, che provano a introdurre valutazioni di merito con regole che nel fare graduatorie di scuole, atenei e pubblicazioni, burocratizzano il giudizio sul merito invece di renderlo trasparente.
Anche questo governo, nonostante si sia presentato come un esecutivo di emergenza, sente di dover lasciare la propria impronta. Lo fa applicando alla scuola pubblica l’ottica del merito misurato e quantificato, seguendo il criterio economico di monetizzare il valore. Se lo scambio via mercato funziona come attribuzione equa di valore, perché non dovrebbe succedere lo stesso con le idee e i titoli di studio? Non è forse una via al giusto riconoscimento quello
che insiste sull’incentivare i migliori dando loro un segno tangibile dei loro sforzi?
Tra le proposte contenute nel “pacchetto merito” vorrei soffermarmi in particolare su due tipi di incentivi: quello rivolto agli studenti (e per loro tramite agli istituti scolastici) e quello rivolto alle imprese. Nel primo caso, si propongono sgravi fiscali e un premio in denaro al migliore alunno dell’intero istituto. La proposta sembra ragionevole e sinceramente votata al bene della scuola. Tuttavia occorre essere almeno un poco scettici perché questa proposta introduce un fattore che è molto preoccupante anche ai fini di rendere la scuola più capace di selezionare il merito. Infatti il compito di una buona scuola pubblica dovrebbe essere prima di tutto quello di portare intere classi di studenti alla fine dell’anno scolastico con successo e il minor numero possibile di abbandoni. Sembra però che questo obiettivo non valga gran che e non sia molto apprezzato se si propone di introdurre un diverso segno tangibile del successo degli istituti scolatici: quantificando cioè il risultato del lavoro collettivo di un anno (e di vari anni) con il premio a uno, al migliore. Arrivare al traguardo come in una gara sportiva significa concentrare tutte le energie a far salire sul podio il primo, trascurando se necessario tutti gli altri o la maggioranza degli studenti che, ovviamente, devono restare indietro (non tutti possono né devono salire sul podio). Ma una scuola che è votata al “primo” è una scuola che rischia di essere votata alla mediocrità, non al merito, perché spronata non a formare molti studenti ma a blasonarsi con il nome di un vincitore.
Circa il secondo tipo di incentivi, quello che propone sgravi fiscali alle aziende che assumono i più bravi, esso lascia a dir poco perplessi perché contiene una contraddizione che non può non saltare agli occhi quando si ragioni di incentivi e convenienza.
Infatti, perché premiare chi è naturalmente incentivato — per ragioni di convenienza — ad assumere i migliori tra coloro che rientrano nei profili richiesti? Non è un sufficiente incentivo quello dell’interesse — ovvero che un’azienda cerchi il meglio per sé, poiché qui sta la condizione essenziale per essere più competitiva sul mercato? Che senso ha premiare ciò che è già nell’interesse dell’attore a fare?
La scuola, quella pubblica in primo luogo perché scuola dalla quale devono uscire non solo buoni professionisti, ma anche cittadini competenti e con senso civico, dovrebbe avere come prima vocazione quella di neutralizzare il più possibile fattori esterni al valore individuale, cioè portare ragazzi di ogni classe sociale e con diversi punti di partenza culturali ad amare la conoscenza, a scoprire la propria vocazione, ad apprendere a formulare giudizi per poter scegliere con cognizione di causa e responsabilità. La gara scolastica dovrebbe essere quella che porta i migliori a cooperare per elevare tutti i compagni. Una competizione al meglio perché più l’ambiente è ricco di stimoli per tutti più numerosi saranno i talenti che emergono. La gara non è quindi ad esclusione, soprattutto quando la scuola è scuola pubblica di formazione, che prepara all’università e alla vita. Premiare il primo dell’istituto può significare invitare dirigenti e insegnanti a distogliere lo sguardo dal meglio per tutti gli allievi in generale per concentrarlo su chi dovrà tagliare il traguardo. Una scuola che lascia a terra chi non arriva primo, che decreta “vincitori” e “sconfitti” è quanto di più distante dalla filosofia della scuola pubblica di una società democratica. Per citare Asor Rosa, la lena a “titar su” classi intere di alunni è lo sforzo collettivo che più dovrebbe essere premiato nella scuola pubblica, il cui obiettivo è quello di arricchire la società di un numero alto di potenziali “migliori


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