Il merito della ricerca
La mappatura degli atenei da parte dell’Anvur. L’agenzia voluta da Mussi in sette anni ha monitorato il lavoro delle università. Ne viene fuori uno spaccato articolato del nostro Paese
Pietro Greco
CI TIENE A RIMARCARLO, L’ANVUR, L’AGENZIANAZIONALE PER LA VALUTAZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA:presentiamo il rapporto finale sulla Valutazione della Qualità della Ricerca 2004-2010 con un mese di anticipo sui tempi previsti. Abbiamo lavorato sodo ed ecco i risultati. I risultati sono quelli presentati ieri in conferenza stampa. E riguardano il sistema di ricerca italiano quasi per intero 95 università, 12 Enti Pubblici di Ricerca vigilati dal Miur, 26 enti «volontari». Tra il novembre 2001 e pochi giorni fa, 14 Gev (Gruppo di Esperti della valutazione) hanno preso in esame i risultati ottenuti in sette anni (tra il 2004 e il 2010) dai ricercatori italiani (articoli, libri, saggi, brevetti, manufatti, note a sentenza, traduzioni, software, banche dati, mostre e cartografie) e ne hanno valutato la qualità, con metodi bibliografici (oggettivi ma freddini) e metodi di valutazione critica (peer review). Diciamo subito che nel corso di questo anno e mezzo non sono mancate le critiche all’Anvur e ai suoi metodi di valutazione. Diciamo subito che alcune delle critiche non erano infondate. Ma è un fatto che l’Agenzia voluta da Fabio Mussi, ministro dell’ultimo governo Prodi, ha per la prima volta, come dire, istituzionalizzato il concetto di merito nell’ambito del sistema di ricerca italiano. Fai un lavoro, vediamo quanto vale a livello nazionale e internazionale. Questa attività di valutazione ha coinvolto oltre 15.000 valutatori che hanno giudicato oltre 180.000 «oggetti». Ne è sortita una fotografia del sistema di ricerca italiano molto analitica, molto capillare. Che andrà studiata, appunto, nei dettagli. Perché un’analisi complessiva dei risultati del rapporto potrebbe portare a conclusioni fuorvianti. Fatta questa premessa, possiamo azzardare una prima valutazione della valutazione e cercare di mettere in evidenza i dati strutturali che sembrano emergere. Il primo è che l’Italia della ricerca è un enorme puzzle, frammentato e asimmetrico. È un puzzle ricco e colorato nel centro-nord (ove pure non mancano tessere grigie). È un fondo senza quasi colore al sud, dove le università e i singoli dipartimenti di fanno ricerca di qualità sono molto più rari. Eppure ci sono. A volte sono brillanti. Come l’informatica a Salerno o la farmacia a Napoli. A dimostrazione che non sono ragioni antropologiche quelle che determinano il ritardo. Bisognerebbe studiare a fondo le cause dell’asimmetria tra il Sud della ricerca e il resto del paese. Ma intanto la foto che la registra c’è. E indica che la condizione di asimmetria dovrebbe essere sanata. Per il bene del Mezzogiorno e dell’intero paese. Come, è tutto da studiare. Il secondo dato strutturale è che la ricerca nelle discipline scientifiche ha, in media, una qualità più alta di quella nelle discipline umanistiche. Siamo bravi in chimica e in fisica. Siamo molto più deboli nelle scienze sociali e politiche. Andiamo bene in matematica e biologia. Molto meno in storia e filosofia. Anche in questo caso, occorrerebbe capire le cause per correre ai ripari. Forse nell’analisi comparata pesa la difficoltà di valutare la qualità in aree disciplinari in cui, a differenza della scienza, gli elementi locali contano più degli elementi universali. Ma anche un processo di internazionalizzazione, anche del sistema di comunicazione della ricerca, meno marcato. Un terzo dato strutturale è quello forse meno atteso. In quasi tutti i settori il meglio delle piccole e media università (oltre che degli Enti pubblici di ricerca) ottiene risultati di qualità più elevata del meglio delle grandi università. Il che dimostra che nella scienza non conta più tanto una «massa critica locale», ovvero concentrare in un solo luogo fisico tanti ricercatori, quanto essere inserito nella «massa critica globale», il che significa appartenere alla rete sempre più de localizzata dei migliori al mondo. Ci si può riuscire – ci si riesce persino meglio – appartenendo a piccole realtà che curano l’eccellenza. Un modello questo dei piccoli centri di qualità diffusi che contrasta con quello inglese e che sta facendo proseliti in Francia come in Germania: creare grandi centri di eccellenza. I dati dell’Anvur sembrano dimostrare che la ricerca della qualità non ha bisogno di una concentrazione (fisica) di quantità. Il che dovrebbe indurre a riflettere chi sostiene che i mali della ricerca nell’università italiana derivano dalla presenza di un numero eccessivo di atenei. No, le cause sono altre. Forse in molti dipartimenti manca quella ricerca del merito che l’Anvur ha messo in primo piano.