Il Manifesto_La pay-school di Foligno -di Alba Sasso
La pay-school di Foligno La riforma che il ministro Moratti presenterà in gran pompa privatizzerà larga parte dell'istruzione pubblica. E produrrà una scuola classista, elitaria, che difende le p...
La pay-school di Foligno
La riforma che il ministro Moratti presenterà in gran pompa privatizzerà larga parte dell'istruzione pubblica. E produrrà una scuola classista, elitaria, che difende le più ingiuste gerarchie sociali
ALBA SASSO
Dopo sei mesi circa di definizione dello sfondo - il decreto sui precari, il documento di programmazione economica e finanziaria, le misure di contenimento della spesa dell'istruzione contenute nella finanziaria - dopo un'altalena di dichiarazioni pubbliche in sedi private, dopo un lavoro di "carte segrete" sulla stesura della proposta, il progetto Moratti di riforma dell'istruzione e della formazione è definito e sarà presentato a Foligno con una cerimonia mediatica sfarzosa. Gli Stati generali della scuola.
C'è sempre in chi costruisce un'ipotesi di sistema di istruzione un'idea di società, di democrazia e di futuro. La questione della formazione rappresenta oggi un problema che - nella società dell'informazione e della comunicazione - va al di là di fatti puramente organizzativi e gestionali perché tocca i temi della democrazia, dell'inclusione e dell'esclusione, dei diritti di cittadinanza, del ruolo dei poteri pubblici nell'essere garanti della qualità e dell'equità dei sistemi educativi.
E allora mi sembra utile ribadire alcune questioni, elaborate e condivise a livello europeo (basta riandare con la memoria ai rapporti sull'istruzione di Delors e di Cresson), acquisite dalla coscienza democratica e civile del nostro paese, premesse al processo riformatore messo in campo dal centrosinistra.
1. La cultura, il sapere diffuso, sono oggi un bene prezioso, indici della democrazia e della civiltà di un paese;
2. Le politiche dell'istruzione e della formazione non sono questioni di settore: hanno bisogno di confrontarsi con i mutamenti del mercato del lavoro e con i saperi del lavoro senza essere subalterne ai bisogni contingenti del sistema produttivo;
3. E' obbligo per ogni società quello di fornire, almeno fino a una certa fascia di età, alfabeti, codici e strumenti, chiavi di accesso al sapere uguali per tutti, senza prefigurare gerarchie di saperi o canalizzazioni precoci;
4. Ogni cittadina e ogni cittadino hanno diritto alla formazione per tutto l'arco della vita perché nella società della conoscenza l'apprendimento è bisogno primario, condizione essenziale per vivere e per lavorare;
5. La scuola che veramente conta per lo sviluppo del paese è quella che fa crescere il livello di istruzione della maggioranza della popolazione;
6. Nella società dell'informazione il problema non è tanto quello di percepire le informazioni necessarie nell'assordante rumore di fondo - come lo chiamava Calvino - ma piuttosto quello di imparare a produrle e ad usarle;
6. La cifra forte del sapere del nostro tempo non è quella di un sapere chiuso, predefinito, separato ma è simboleggiata dal concetto di frontiera, di attraversamento, di intrusione e contaminazione;
7. La sfida modernissima e antica della multiculturalità disegna il primato di una scuola laica e pluralista: quella dove convivano differenze, dove abbiano spazio di confronto ipotesi culturali e religiose diverse, quella dove si cresce tutti insieme, studenti, docenti, famiglie nel rispetto di ognuno e nella faticosa costruzione di valori condivisi.
La filosofia del progetto Moratti mette in discussione proprio questi principi. Colpisce che di fronte a problemi epocali Moratti e il governo continuino a spostare il problema, a ripetere ossessivamente che il limite dell'attuale sistema scolastico sta nel monopolio statale dell'istruzione.
La storia di altri paesi dimostra con tutta evidenza che, se si ha a cuore la crescita della società della conoscenza, non solo non funzionano quei sistemi diciamo assistenziali da una parte ed elitari dall'altra, come quello americano, ma non possano nemmeno funzionare sistemi in cui gli stati rinuncino a definire un progetto pubblico, condiviso di istruzione, quasi fosse impossibile conciliare le libertà individuali con le finalità comuni di ogni società; e affidino il compito di rispondere ai bisogni formativi di coloro che sono definiti "clienti" agli automatismi della competitività e del mercato. Ed è proprio quel che propone questa ipotesi di riforma, o meglio di controriforma. Non si tratta solo di aumentare i finanziamenti alla scuola privata, scelta anticostituzionale che si sta già consumando attraverso la politica del buono-scuola. Si tratta, a mio modo di vedere, addirittura di qualcosa di peggio. Della volontà di ridisegnare un nuovo equilibrio di sistema attraverso la privatizzazione di quote consistenti dell'istruzione pubblica. Nel progetto che sarà presentato la prossima settimana il disegno è esplicito. Lo stato garantisce una parte del curricolo obbligatorio (italiano, matematica, scienze, storia, e anche religione), un'altra parte (da zero a 300 ore) viene fornita dalla scuola, ma è facoltativo usufruirne. Il che prefigura una gerarchizzazione dei saperi e sottovaluta il valore fondativi, nella formazione, dell'apprendere insieme. Se poi le famiglie volessero di più - approfondire percorsi o aggiungere quote di sapere - dovrebbero pagarselo. Una pay-school. La scelta di esternalizzare una parte di formazione moltiplicando enti e privati che forniscano formazione, il cosiddetto outsourcing. Insomma si dà a enti e privati la possibilità di far soldi a spese dei bisogni essenziali delle famiglie, dal tempo pieno, all'assistenza per l'handicap, alla necessità di approfondire e arricchire la formazione dei propri figli. Si trasforma un diritto da garantire a tutti in un bene di consumo per chi vuole, per chi sa e per chi può. E per questa strada si impoverisce la qualità della scuola di tutti. Dopo le televisioni libere la cultura libera.
L'effetto? Una scuola americanizzata, con percorsi differenziati: un minimo per tutti e gli optionals per chi se li può permettere. Una scuola che riproduce e suggella le disuguaglianze e le gerarchie sociali. Ed è così anche nella scelta di diversificare i percorsi a 14 anni. Chi a scuola, chi alla "scuola professionale" e peraltro con un percorso orientato in modo selettivo sin dai 12 anni.
Non penso certo che nel percorso formativo ci debba essere un'artificiosa soluzione di continuità, prima la cultura poi l'addestramento. Penso invece che 14 anni siano pochi per decidere del destino sociale di una persona - e penso che per acquisire le competenze richieste dalla celerità del progresso scientifico e dall'innovazione nel settore tecnologico, per gestire ad esempio nuove macchine, per farle lavorare, è necessario avere acquisito e metabolizzato solide competenze di base. E tutto questo può avvenire entro i 14 anni? E' una follia democraticista, come dice qualche notista politico, quella di voler garantire questa formazione per il numero più alto di cittadini? "La capacità intellettuale crea nuove tecnologie - sostiene Lester Thurow - ma sarà il lavoro qualificato la base che consentirà di impiegare le nuove tecnologie di processo e di prodotto generate". Più conoscenze e competenze in ogni posizione lavorativa, dunque. "Ad esempio - sostiene ancora Thurow - per poter svolgere le proprie mansioni, ogni lavoratore deve avere un livello di conoscenza della matematica di base molto superiore a quello posseduto dalla maggior parte dei diplomati delle scuole superiori. Senza controllo statistico della qualità, oggi i semiconduttori ad alta densità non possono essere fabbricati. Possono essere ideati, ma non fabbricati". E allora, dobbiamo pensare che la scelta della canalizzazione precoce voglia assecondare quella parte di imprese che non richiede alti livelli di qualificazione? E che l'istruzione e la formazione debbano diventare fotocopia dei bisogni più egoistici e congiunturali delle imprese?
Insomma questo progetto rappresenta un arretramento vero: culturale e sociale. Si riduce di un anno il percorso scolastico, ma non laddove, come nella legge 30, si trattava di unificare il percorso di base per renderlo più compatto e meno ripetitivo, ma nella secondaria, dove accanto a nuove acquisizioni di sapere è necessario più tempo per percorsi di approfondimento e consolidamento delle conoscenze. Si torna indietro, per quanto riguarda la scuola elementare, sul maestro unico, ignorando il lavoro prezioso ed efficace svolto in quasi 20 anni dalla scuola elementare. Si riscoprono vecchi armamentari come la valutazione del comportamento che conta come quella dell'apprendimento o come l'idea che ogni singolo tratto del percorso educativo e formativo sia solo propedeutico a quello successivo. Si ragiona di percorsi di apprendimento, di discipline e di saperi mettendo da parte, quasi con insofferenza, tutto quanto discusso ed elaborato non solo in questi cinque anni, ma da quasi quarant'anni a questa parte. Insomma si cuce un vestito, peraltro di vecchia foggia, con una certa indifferenza, se non alle volte fastidio, per chi dovrà indossarlo: studenti e docenti.
Si modifica il meccanismo di reclutamento degli insegnanti, introducendo la chiamata diretta da parte delle scuole. E si modifica la figura professionale dell'insegnante, da una parte l'insegnante "aggregato", dall'altra l'insegnante "tuttologo". Quello che va bene per tutti. Si ridisegna l'intera questione istruzione professionale-formazione professionale pur dichiarando che non si entra nel merito della legge sul federalismo. Ma sono state sentite le regioni?
Se è vero allora che il modo in cui una società progetta il suo sistema formativo non possa che fare i conti col suo modello sociale, con il suo tasso di democrazia, col suo progetto di futuro quello che si ha in mente è un modello di società che discrimina e divide. Nel progetto di riforma del centro sinistra una scommessa era assai chiara. Quella che di fronte alla complessità e molteplicità del cambiamento, o la formazione diventa strumento per disegnare un progetto più evoluto e solidale di organizzazione sociale o finisce con l'assecondare un processo di destrutturazione sociale. Per questo governo è questa la scelta.
Fa paura la semplificazione delle soluzioni, la secchezza e l'autoritarismo delle decisioni, l'ingenuità di voler governare un sistema complesso con miope logica aziendale. Il decreto sui precari del luglio scorso che doveva servire all'ordinato avvio dell'anno scolastico produrrà a gennaio, per le migliaia di ricorsi accolti, una disordinata prosecuzione dello stesso anno.
"Ma c'è una logica...". Logica sottesa anche alle scelte fatte nella legge finanziaria. Ridurre risorse e investimenti - si parla di un piano pluriennale di 19 mila miliardi, ma perché non nella finanziaria? - irrigidire l'organizzazione del lavoro, togliere spazi di autonomia al lavoro docente, penalizzare anche economicamente gli insegnanti significa colpire al cuore la qualità della scuola di tutti; significa non sapere o non voler leggere la complessità di quel mondo, la profondità di un processo di cambiamento che è già partito da tempo e che le riforme di questi anni hanno interpretato e portato a soluzione legislativa. Significa, infine, attaccare la scuola nel suo carattere pubblico e laico, che è proprio nella capacità, questa sì modernissima, di dare risposte articolate e differenziate ai bisogni formativi di ognuna e ognuno; di garantire il diritto all'istruzione come "diritto alla cultura per tutti", di saper costruire saperi e valori condivisi. Significa insomma colpire i fondamenti democratici dello stato di diritto. Insomma Moratti propone, ignorando anni di dibattito e di lavoro democratico nella scuola, un drammatico arretramento: una scuola classista, elitaria, che difende le più ingiuste gerarchie sociali. Perciò chi ha a cuore la democrazia e il futuro di questo paese non ci sta. E non sarà solo battaglia delle forze di opposizione.
P.S. Vorrei suggerire allo staff ministeriale di dotarsi oltre che di consulenti per l'immagine, di consulenti storici. Qualcuno di loro potrebbe ricordare che gli Stati generali, convocati d'autorità da Luigi XVI con l'intenzione di salvare la monarchia francese, non solo non la salvarono, ma per il terzo stato furono l'occasione per ritrovare compattezza, identità e alleanze.