Il Manifesto - I palpiti di quel Cuore
I palpiti di quel Cuore BIANCA PITZORNO Il "Cuore" di De Amicis, una perfetta "macchina per fare piangere" ma anche la descrizione della vita "vera" di Torino e di un mondo parallelo, colori...
I palpiti di quel Cuore
BIANCA PITZORNO
Il "Cuore" di De Amicis, una perfetta "macchina per fare piangere" ma anche la descrizione della vita "vera" di Torino e di un mondo parallelo, colorito e sanguigno, anzi spesso insanguinato. Non per niente l'epoca era quella dei romanzi d'appendice, e la città quella dove Carolina Invernizio avrebbe ambientato le sue storie di peccato e vendette. Un libro in cui si racconta per la prima volta con ammirazione di una scuola laica e pubblica dove siedono vicini ricchi e poveri, biondi e "civili" piemontesi e scuri e "selvaggi" emigranti del sud
Tutti noi autori italiani di libri per bambini ci siamo dovuti misurare con quello che, nella nostra infanzia, veniva chiamato con una parola unica, il librocuore. "Non venirmi a raccontare una storia da librocuore" - dicevano le nostre ciniche e ironiche mamme, quando cercavamo di impietosirle con qualche scusa patetica.
In molti siamo cresciuti pieni di diffidenza nei confronti di De Amicis, che ci sembrava unicamente il costruttore di una perfetta "macchina per fare piangere". A nove anni io mi rendevo conto che il libro era scritto tutto "dalla parte degli adulti". Che della psicologia dei bambini non si teneva alcun conto. Non sapevo che Freud doveva ancora svelare questo mistero, ma in Senza Famiglia, per fare un'esempio, il trovatello Remy veniva rappresentato con le sue emozioni, le sue paure, col suo carattere individuale. Per non parlare di Piccole donne o di Pinocchio. Mentre Enrico, lo scolaro mio coetaneo, il bambino borghese come me, era descritto come un essere amorfo, un recipiente vuoto, ed era il padre a spiegargli volta per volta quello che doveva sentire, di chi doveva essere amico, cosa doveva ammirare e cosa temere.
Poi c'erano degli atteggiamenti, delle frasi, che mi facevano fremere d'indignazione. La descrizione di Franti, per esempio, così lombrosianamente stigmatizzato: un delinquente senza speranza di redenzione. "Ma è un bambino!" - pensavo arrabbiata - "Un bambino piccolo di terza elementare!" (Io facevo la quarta e mi sentivo una paladina dei piccoli di terza.)
E quando il muratorino va in visita da Enrico e sporca di calce il divano, non sopportavo che il padre rimproverasse il figlio dicendogli: "Rispetta il lavoro" - invece di: "E' un'indecenza che un bambino di otto anni debba lavorare come muratore. Dobbiamo fare qualcosa per impedirlo."
Non ci pensava, quel signorino azzimato di Enrico, che sarebbe potuto toccare a lui di trasportare il secchio di calcina su una pericolosa impalcatura? Io, a nove anni, sapevo benissimo che i bambini hanno le loro opinioni, spesso diverse da quelle dei genitori e degli insegnanti, che si guardano attorno, e che danno un loro giudizio sui fatti della vita e sui comportamenti altrui, soprattutto sui comportamenti degli adulti.
Molti anni dopo avrei scritto Ascolta il mio cuore proprio per dar voce ai sentimenti dei bambini nei confronti degli insegnamenti e ammonimenti degli adulti, per raccontare la scuola e la società dal loro punto di vista.
Ma, per tornare al tempo della mia infanzia, nonostante la mia diffidenza per i suoi aspetti ammonitori, c'erano dei brani del Cuore che mi affascinavano, non solo nei racconti mensili, ma anche nella descrizione della vita "vera" di Torino, al di fuori del salotto di casa Bottini e della scuola di Enrico. Degli squarci su un mondo inquietante, minaccioso, su una società piena di misteri e di contraddizioni. Non per niente l'epoca era quella dei romanzi d'appendice, e la città quella dove Carolina Invernizio avrebbe ambientato le sue storie truculente di peccato e di vendette, di eleganti salotti borghesi e di gelide soffitte.
"Suo padre e sua madre, contadini dei dintorni di Padova, lo avevano venduto al capo d'una compagnia di saltimbanchi" - Ma questo è Remy di Senza Famiglia! - verrebbe da pensare. Invece è Il piccolo patriota padovano.
- "Io non ho famiglia - rispose il ragazzo-sono un trovatello." E altri non è che La piccola vedetta lombarda.
"Uno spazzacamino, molto piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva dirottamente singhiozzando." Dickens? Sue? Lo spazzacamino della canzone? (Della mamma non ho/ la carezza più tenera e lieve/ e mi sento un signor-/quando dormo in un letto di neve). Invece è una scenetta all'uscita della scuola femminile.
"Ma una delle manine restò un minuto secondo tra le mani del signore, e questi, strappatosi dalla destra un anello d'oro con un grosso diamante e infilatolo con un rapido movimento in un dito della piccina - Prendi - le disse - sarà la tua dote di sposa." Cosetta? No, una straccioncella torinese che ha perduto la mamma nella baraonda del carnevale cittadino e che invece di un pedofilo, ha la fortuna di incontrare un generoso viveur.
Ma quello che più mi piaceva era un brano che aveva sapore di Fantomas: "Due uomini erano balzati nella stanza: l'uno afferrò il ragazzo e gli cacciò una mano sulla bocca; l'altro strinse la vecchia alla gola; il primo disse: - Zitto, se non vuoi morire! - Il secondo: - Taci! - e levò il coltello. L'uno e l'altro avevano una pezzuola scura sul viso, con due buchi davanti agli occhi." Non è Fantomàs. I lettori di Cuore avranno riconosciuto Ferruccio e la scena finale di Sangue romagnolo.
Carolina Invernizio, ho detto sopra. Molti personaggi deamicisiani sono gli stessi dei romanzi di colei che Gramsci definì "l'onesta gallina della letteratura italiana". Quei gobbini che la madre di Enrico va a visitare, crescendo non diventeranno altrettanti Gin, la gobba di Porta Palazzo? E quel giardiniere di campagna che viene in città a trovare la figlia sordomuta non rischia di scoprire, tra qualche anno, che anche la sua Gigia è stata sedotta da un ricco signore o cerca La felicità nel delitto? E quel carcerato che intaglia calamai, quel bambino smunto che studia inginocchiato per terra a lume di candela in una soffitta, quel padre schiavo dell'alcol... Tutti li ritroveremo nei romanzi di appendice dell'Ottocento.
Uomo del suo tempo, De Amicis ci mostra, di fianco al mondo esangue e artificiale dello studente modello privo di sentimenti e di indignazione, un mondo parallelo, colorito e sanguigno, anzi spesso insanguinato. Non sa rinunciare al gusto del macabro, dell'orrido, dell'effetto "forte". "Sai quanti uomini si piantarono un coltello nel cuore (...) e quante donne s'annegarono, o morirono di dolore o impazzirono?" - scrive il padre di Enrico; altrove è la descrizione di un mutilato ad affascinare e inorridire il lettore: "La gamba sinistra gli era stata amputata al di sopra del ginocchio; il troncone era fasciato di panni insanguinati"; e altrove, dopo un incidente: "La folla era già passata tutta e si vedeva in mezzo alla strada una lunga striscia di sangue".
Che nel descrivere questi orrori ci sia un certo morboso compiacimento lo denuncia il brano che descrive la visita all'ospizio dei rachitici, "tutte quelle gambe fasciate, strette tra stecche, nocchierute, sformate; delle gambe che si sarebbero coperte di baci!" Addirittura!
E quando il piccolo Robetti "si rompe un piede" salvando un alunno più piccolo che rischia di essere travolto dall'Omnibus "il direttore si arrestò un momento, pallido; e sollevò un poco il ragazzo con tutte e due le mani per mostrarlo alla gente." Gente che evidentemente, come i lettori più sprovveduti - e come molti odierni telespettatori - si compiaceva a contemplare il dolore degli altri.
Ma, considerato nel momento storico in cui fu scritto, accanto a queste inevitabili debolezze, Cuore ha dei grandi meriti che forse il bambino lettore non può consapevolmente apprezzare, ma che comunque "passano" nella sua coscienza e che sarebbe ingiusto non riconoscere a De Amicis.
Non dimentichiamo che a quei tempi in Italia la maggior parte dei libri per l'infanzia era scritta da religiosi o comunque mediava valori di obbedienza e pietà legati al cattolicesimo e alla chiesa. Persino nell'America protestante i due esilaranti racconti di Mark Twain sul bambino buono e il bambino cattivo fanno riferimento ai libretti della "scuola domenicale" gestita dalle autorità religiose.
In Cuore si racconta per la prima volta con rispetto e ammirazione di una scuola laica, una scuola Statale aperta a tutti, dove si insegnano non le virtù del devoto fedele, ma quelle del cittadino. Una scuola pubblica dove siedono vicini non solo ricchi e poveri, ma i biondi e "civili" piemontesi accanto a scuri e "selvaggi" emigranti dal profondo sud. E dove i maestri insegnano che, nell'Italia finalmente unita, lombardi e calabresi sono cittadini con uguale dignità e uguali diritti. Dove gli operai analfabeti frequentano le scuole serali perché sanno che l'istruzione è la base indispensabile per il loro riscatto, e dove giovani maestrine stremate dalla stanchezza insegnano in queste scuole per adulti, ben consapevoli del valore della solidarietà sociale.
Certo, è un aspetto del libro che i bambini di oggi non possono capire senza che un adulto li aiuti a conoscere i tempi in cui Cuore è stato scritto. Forse io da piccola non mi sarei tanto arrabbiata per il muratorino, se qualcuno mi avesse spiegato che allora la maggior parte dei bambini faceva lavori pesanti e pericolosi e a scuola proprio non ci metteva piede. Sarebbe bello se, invece di sfruttarne per l'ennesima volta gli aspetti sentimentali e patetici, qualcuno mettesse in evidenza gli elementi che, all'apparire di Cuore, ne fecero un libro così speciale e così apprezzato da chi aveva a cuore la dignità e l'indipendenza degli italiani.