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Il loro posto nel mondo

Che cosa chiedono gli studenti

22/04/2021
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la Repubblica

Vogliono tornare in classe perché da casa non è la stessa cosa. Vogliono tornare in classe perché è il loro posto nel mondo. Vogliono tornare in classe perché glielo abbiamo promesso, e i ragazzi alle promesse degli adulti sono ancora abituati a dar credito, nonostante tutto.

Non riescono più a ricordare per quante volte, dal marzo scorso fino a questo scorcio di aprile, è stata annunciata la campanella del ritorno a scuola. Esattamente un anno fa, mi hanno ricordato i miei alunni salutandomi per l’ennesima volta dal monitor di un computer, veniva comunicata la fine ormai prossima della fase più severa del lockdown e il rientro in classe, che poi non ci fu. Non ha mai suonato l’ultima campanella del 2020, quella che tradizionalmente segna il compimento di un ciclo di semina e coltura (dunque di “cultura”) e l’inizio delle vacanze, come se quell’anno non si fosse mai concluso.

Oggi, a dodici mesi di distanza, mentre le Regioni si preparano a ridiventare arancioni o gialle, tornano le sacrosante perplessità su come, quando e quanto permettere ai ragazzi delle superiori di abbandonare le postazioni domestiche e riprendersi la scuola.

La meta si allontana di nuovo, come fata morgana che inganna i naviganti, e loro alle nostre promesse stanno per smettere di credere.

Certo, forse anche questo è diventare grandi: fare la tara tra il desiderabile e il reale e accontentarsi del possibile. Ma quando lo iato tra le due dimensioni diventa troppo ampio per essere colmato con la rassegnazione, in quei ragazzi si fanno avanti delle domande: quanto si è fatto, nel corso di un anno, per tutelare noi, i nostri bisogni, i diritti di tanti? Quanto si sarebbe potuto fare? Nella piramide dei bisogni e dei diritti del nostro Paese, quale posto occupiamo noi, che non abbiamo rappresentanza sindacale né politica. E, insieme alle domande, un sospetto di risposta: forse in quella piramide non abitiamo alcun gradino perché non produciamo ricchezza e perché l’unico ristoro che potrebbe risarcirci delle perdite subite non può essere erogato con nessuna moneta.

Il 26 aprile, che avrebbe potuto essere un nuovo primo settembre fuori stagione per gli alunni di tutte le età, con il tepore primaverile che avanza al posto delle prime avvisaglie d’autunno, non riuscirà probabilmente a mantenere le sue promesse, lasciando per l’ennesima volta gli studenti disorientati, o peggio sfiduciati. E non è per il mese di lezioni rimanente, perché è di quello che parliamo, cinque settimane in tutto, considerati anche gli scrutini anticipati al primo giugno, pare per mettere in salvo la maturità. Il ritorno in classe di tutti gli studenti sarebbe il segno di un’attesa che finisce, di un anno scolastico che si apre, si interrompe mille volte, ma infine si compie. Permettere ai ragazzi di tornare, tutti, in classe, anche a costo di ritardare altre aperture, dare la precedenza a loro, regalargli trenta giorni di normalità, se questa parola può avere ancora un senso, significa insegnare la lezione più preziosa: che la solidarietà è un bene duttile, perché si offre e si riceve. Abbiamo chiesto ai ragazzi di restare a casa per preservare i più fragili e gli anziani, perché ogni singolo movimento può incrementare il rischio di contagio.

Abbiamo precisato che dovevano aspettare fino all’arrivo dei vaccini, poi abbiamo spiegato che era necessario lasciare la precedenza ad altre priorità. Sarebbe bello, credo, se in questo finale di stagione scolastica fossero loro l’oggetto della nostra solidarietà, perché non credano di essere stati truffati in virtù della loro eccessiva arrendevolezza, perché non si convincano che sia più utile e meno pericoloso in termini di contagio poter sostare fuori da un bar fino alle 23, piuttosto che in un’aula per cinque ore con finestre aperte e mascherina.

Potenziare i trasporti, dotare le aule di opportuni impianti di aerazione, spingere sui test salivari, erano dal loro punto di vista soluzioni a portata di mano. Programmare un piano di riaperture più graduale che non porti inevitabilmente a dover richiudere le scuole dopo pochi giorni o a ridimensionare drasticamente il numero di ingressi, sarebbe nella loro opinione una priorità. Di fronte a queste loro osservazioni ho provato l’imbarazzo di chi, pur non essendone responsabile, sta commettendo un torto.

Facciamo un patto per la scuola, allora, una grande iniziativa di solidarietà sociale, al di là degli schieramenti politici e degli interessi di categoria: accettiamo di tassarci ancora per un mese delle nostre libertà, poco più di trenta giorni da offrire ai ragazzi, a quelli che in silenzio e senza fare tante lagne — come alcuni hanno inopportunamente rimproverato loro — hanno pagato forse il prezzo più alto. Finire l’anno scolastico in classe, tutti insieme, sarebbe una forma di salvezza e di riscatto.

Sarebbe un simbolico risarcimento. Sarebbe un ritorno a casa.

Trenta giorni per loro: non priviamoli ancora di quell’ultima campanella.


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