FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3772157
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Il lavoro non è finito

Il lavoro non è finito

www.larivistadelmanifesto.it IL LAVORO NON È FINITO Dino Greco 1. Quando queste note appariranno sulla "rivista del manifesto", la spettacolare riuscita dello sciopero ge...

22/11/2002
Decrease text size Increase text size

www.larivistadelmanifesto.it

IL LAVORO NON È FINITO
Dino Greco

1. Quando queste note appariranno sulla "rivista del manifesto", la spettacolare riuscita dello sciopero generale, indetto dalla sola Cgil, sarà stata ampiamente commentata e analizzata. È tuttavia forte in chi scrive '#8211; a poche ore da questo splendido 18 ottobre '#8211; lo scuotimento e l'emozione per un successo di così vaste proporzioni, per una partecipazione di popolo così grande, corale e intimamente sentita ad una lotta ingaggiata fra mille, evidenti difficoltà.
Sia chiaro: non si è trattato di un sussulto. Le lotte di pura testimonianza durano un giorno, fanno leva sull'orgoglio, ma poi perdono inesorabilmente di forza attrattiva. In campo si è invece ripresentata '#8211; composta e consapevole '#8211; una massa non doma, non rassegnata alla sconfitta e che saprà durare.
Non conviene neppure soffermarsi sul pietoso tentativo di svalutazione dell'evento, cui si sono maldestramente applicati i segretari di Cisl e Uil: ci sono macroscopiche evidenze che precipitano nel ridicolo chi cocciutamente si ostina a negarle. Lo sciopero ha dunque retto le prove della divisione sindacale (malgrado non siano mancati episodi di apologia del crumiraggio), dell'oscuramento mediatico e della contraffazione che ha sistematicamente spacciato la mobilitazione per un atto ora influenzato da condizionamenti ideologici, ora originato dalla lotta per la leadership nel centro-sinistra.
Si è tentato in vario modo, ma invano, di far passare l'idea di uno sciopero `politico', agito per conto terzi e, in ogni caso, destituito di ragioni sindacali. Era nel conto. Il paradosso sta invece nel fatto che cospicue componenti della parte politica, per così dire, `beneficiaria', non abbiano lesinato appelli, prima generici, poi via via più pressanti ed espliciti alla revoca dello sciopero, nel nome dell'unità sindacale.
L'ipotesi che un rinvio avrebbe permesso la ripresa di un cammino unitario è davvero bizzarra, giacché non esiste un solo dato di fatto che la suffraghi. Non certo le opinioni di Cisl e Uil, che non perdono occasione per sottolineare '#8211; anche di fronte alla legge finanziaria '#8211; che questa non è l'ora della lotta, ma del dialogo.
Rimane allo stato delle cose incomprensibile come si possa immaginare una lotta che unisca chi si batte `contro' e chi lavora `per' il Patto per l'Italia, chi ha sottoscritto la manomissione dell'articolo 18 e chi ne vuole una più estesa applicazione, chi tenta di arginare la frantumazione del lavoro e dei diritti e chi condivide la proliferazione di ogni sorta di flessibilità del lavoro, chi è tuttora incline ad assecondare le bugie governative di cui è infarcita la legge finanziaria e chi ne disvela il carattere fraudolento, chi pensa che la pratica sindacale sia legittimata dal voto e dal consenso dei lavoratori e chi ritiene che essa emani dal rapporto con la controparte, chi chiede che l'unità d'azione si fondi su regole certe di rappresentanza e chi vi si oppone perseguendo deliberatamente la rottura e gli accordi separati.
Tornerò più avanti sulla recidivante schizofrenia politica dello schieramento di centro-sinistra e, in primo luogo, della sua parte mancina, impegnata nel perenne inseguimento del `centro', quali che siano le posizioni con cui apparentarsi.
L'unità `costi quel che costi', anche a prezzo della rinuncia alla propria identità non è una buona ricetta, se mai lo è stata. Eppure essa è un'idea tenacemente perseguita. Anche in Cgil c'è chi vive con irritazione la lotta che la confederazione sta conducendo in proprio; ed anzi pensa che una volta uscito di scena Sergio Cofferati e doppiata la boa dello sciopero generale volga finalmente al termine la ricreazione barricadera. La mobilitazione dei lavoratori dovrebbe per costoro risolversi in un atto di generosa testimonianza che prepara un rapido ritorno a casa. Che non è una semplice riconsiderazione della tattica più efficace, bensì un rovesciamento della svolta strategica maturata nel XIV Congresso della Cgil.
Quando si dice `ritorno a casa' bisogna, infatti, avere chiara nozione di ciò di cui si parla. Giacché non si tratta neppure più di restaurare una politica dei redditi, che è stata del tutto travolta dalle scelte governative in materia di politica fiscale e sociale. Qui si tratta di acconciarsi a subire una trasformazione radicale del sistema di relazioni industriali, uno scardinamento dei poteri di contrattazione e persino una mutazione del sindacato e del suo ruolo nella società italiana.
Al centro di questo attacco vi è il tentativo di svuotare, di depotenziare il contratto nazionale di lavoro e di regionalizzarlo, degradando la stessa contrattazione di secondo livello a puro aziendalismo, prodromo dello scivolamento dalla contrattazione collettiva a quella individuale. In questo nuovo contesto, dichiaratamente ispirato al modello nordamericano, l'intera condizione di lavoro, dal salario alla sicurezza, entra come variabile dipendente ed elemento indefinitamente comprimibile del processo di valorizzazione del capitale.
Questa è la premessa di valore che si chiede al sindacato di condividere. Il resto viene di conseguenza. A partire dalla rinuncia, da parte del sindacato, a qualsiasi ambizione progettuale. La contrattazione diviene allora, nella migliore delle ipotesi, un puro gioco di rimessa: l'oggetto del contendere, il profilo del confronto sono prerogativa esclusiva del padrone, il solo titolato a interpretare l'interesse di quella comunità solidale che è l'impresa, nucleo costitutivo dell'interesse generale.
Non è difficile capire come l'annichilimento del ruolo contrattuale ceda il passo a una più funzionale e a-conflittuale strumentazione collaborativa, quella delle commissioni bilaterali, e ad un colossale riciclaggio del mastodonte burocratico sindacale verso funzioni di gestione ed erogazione di servizi, anche di natura e responsabilità statale. Un sindacato totalmente sterilizzato, che resuscita il mutualismo, rinunciando ai diritti universalistici e che arriva sino a cogestire il collocamento in quel mercato del lavoro balcanizzato, cui ha rinunciato ad opporsi.
Quello che qui si configura è il sindacato di un lavoratore isolato, ridotto alla propria mera individualità, privo di autentici legami solidali e di visione generale: un lavoratore amputato dell'identità sociale, che non partecipa, non vota, non decide.
Non so se nei fautori del `ritorno a casa' vi sia piena percezione di tutto ciò. In alcuni certamente no, in quanto sono platealmente visibili approssimazione nell'analisi e navigazione a vista. In altri è invece radicata la convinzione che questa sia la prospettiva nella quale un ceto politico autoreferenziale deve collocarsi, nel nome di quel liberismo (modestamente) temperato che viene chiamato modernizzazione e che rappresenta il solo orizzonte credibile.
Se la Cgil si facesse sponda di questo disegno sacrificherebbe la tradizione autonomista che ancora resiste nel sindacato, subirebbe una rottura insanabile con la parte reattiva dei lavoratori, deluderebbe quella consistente parte di cittadini che si riconosce nei valori della Costituzione e che ha visto materializzarsi nelle lotte di questi mesi un argine democratico alla deriva reazionaria dell'Italia.

-

Detto ciò, la strada è tutta in salita e la lotta ancora avara di risultati. La congiuntura internazionale parla di stagnazione o di recessione aperta e la concreta possibilità della catastrofe della guerra si abbatterebbe come una mannaia anche sulle rivendicazioni dei lavoratori, sui rinnovi contrattuali imminenti.
Tuttavia è nel quadro dato che dobbiamo operare. Innanzitutto per consolidare la linea generale della Cgil. Abbiamo portato in ogni angolo d'Italia una petizione che annuncia due proposte di legge di iniziativa popolare. L'una che riforma dalle fondamenta l'architettura degli ammortizzatori sociali, puntando a edificare un sistema di protezione che si rivolge a tutti i disoccupati involontari e a tutti i lavoratori discontinui: una partita da dieci miliardi di euro, che rovescia l'impostazione culturale del governo in carica e che, lo si ammetta o no, reclama una revisione del Patto di stabilità; l'altra che rivendica l'estensione dell'Articolo 18, dunque della `tutela reale' alla vastissima platea di lavoratori che ne è esclusa, da coloro che operano nelle aziende al di sotto della soglia dei sedici dipendenti fino ai collaboratori coordinati e continuativi.
Sappiamo che questa linea incontra fiere resistenze. In particolare in chi ritiene che il solo rafforzamento della tutela `obbligatoria', vale a dire l'aumento del risarcimento dovuto alla persona ingiustamente licenziata, costituisca già un temerario azzardo. La stessa discussione intorno al referendum estensivo dell'articolo 18, proposto dal Prc con l'autonoma adesione della Fiom, ha posto in chiara evidenza come in una parte della Cgil il dissenso non sia tanto sullo strumento, bensì sul fine. L'idea che un diritto ritenuto fondamentale `o è universale o non è' non è oggi patrimonio condiviso. C'è chi lo dice apertamente e chi ancora tace, ma presto verrà allo scoperto. Fatto sta che entrambe le proposte di legge sono in uno stato di faticosa gestazione e che presto saremo chiamati a onorare il patto, che abbiamo stretto con cinque milioni di persone.
Esiste poi un problema di coerenza fra la linea generale della Cgil e la pratica rivendicativa della Confederazione e delle proprie categorie, tanto al centro quanto in periferia. Il congresso di Rimini ha fissato alcuni punti cardinali che è indispensabile non smarrire:
i. fine dei contratti in deroga, dei doppi regimi contrattuali fra dipendenti in forza e lavoratori di nuova assunzione; ricomposizione di un mercato del lavoro inverosimilmente frammentato, che ha fatto strame di diritti e che ha allargato solchi profondi fra i lavoratori; nessuna disponibilità a inserire nei nuovi contratti di lavoro ulteriori vulnerazioni come quelle ispirate a quel breviario della precarizzazione che è il Libro Bianco e contenute nel Patto per l'Italia e nella legge delega che il Parlamento si appresta ad approvare, sulla quale '#8211; non lo si dimentichi '#8211; la Cgil ha già deciso di promuovere un referendum abrogativo; ii. riapertura del conflitto redistributivo, che ha per duplice obiettivo il recupero del potere d'acquisto delle retribuzioni (tenendo come riferimento l'inflazione reale e la produttività del lavoro) e il sostegno della domanda interna; iii. l'irrinunciabilità del voto dei lavoratori su tutti i mandati, sulle piattaforme e sull'esito degli accordi, al fine di ripristinare una sovranità usurpata, far vivere senza irreparabili lacerazioni la dialettica interna, dirimere i contrasti attraverso l'esercizio della democrazia.
È per tener fede a questi orientamenti costitutivi della nostra identità e non certo per vocazione antiunitaria o velleità estremistica che la più importante categoria della Cgil, quella dei metalmeccanici, è stata costretta a compiere la difficile scelta di una piattaforma propria, costruita con i lavoratori e validata con il loro voto. Non era data alternativa, se non quella della resa di fronte a ogni rottura di passo che questa o quella delle altre due organizzazioni sindacali ritenessero per sé utile, eludendo qualsiasi confronto democratico. Esattamente come accadde nella precedente tornata di negoziato per il rinnovo del biennio salariale.
I termini della questione sono uguali per tutte le categorie. Nessuna inibizione alla ricerca unitaria, alla mediazione, dunque. Purché resti limpido l'impianto fondamentale e non siano revocabili all'incanto o risultino inesigibili le regole del gioco. Le scelte che abbiamo compiuto non sono opzioni che si possono prendere oppure lasciare, a discrezione. Quando si butta il cuore oltre l'ostacolo e per irresolutezza, o per rinuncia, o ancora per debolezza si sceglie la strada dell'ambiguità, si deve sapere che sarà il tavolo di trattativa a spazzare via ogni illusione: perché lì irromperanno prepotentemente i temi su cui in questi mesi si è consumata la rottura.
Nessuno che possegga del buon senso lavora per la divisione sindacale; nessuno che possegga del buon senso può immaginare imminenti catarsi unitarie. Perché non ve ne saranno. Bisogna prepararsi, con grande saldezza di nervi, a un periodo difficile. E non breve.
Sono persuaso che la politica economica e sociale del governo e il sodalizio con Confindustria entreranno in crisi, sotto la sferza della recessione, della caduta del Pil, del crollo delle entrate e del collasso occupazionale di cui la Fiat è anticipatrice. Nulla di cui rallegrarsi, naturalmente. Ma primattori e sensali che soltanto tre mesi fa sottoscrissero il Patto per l'Italia dovranno incassare la sconfitta di quella linea.
Di lì passa la strada che porta alla ricostruzione delle condizioni dell'unità.
2. C'è qualcosa di nuovo, anzi, di antico che da ormai oltre un anno scuote la politica italiana. È il risveglio impetuoso dei movimenti, di diversa origine e ispirazione, che danno tono a quella `società civile' la cui reattività molti davano per persa. Da Genova a Roma, dai giovani che rifiutano gli esiti sconvolgenti della globalizzazione capitalistica, ai lavoratori riuniti dalla Cgil nella battaglia per la difesa delle fondamentali conquiste del lavoro; dall'eterogenea coalizione di intellettuali, semplici cittadini che si oppongono alla liquidazione dello Stato di diritto, fino agli immigrati che rivendicano per se stessi e per noi tutti giustizia e uguaglianza.
Colpisce la maturità di questi segmenti in cui si articola la lotta e la protesta sociale. Colpisce la concretezza di analisi e di proposta che fermenta dalla loro mobilitazione. Sorprende anche la consapevolezza che essi mostrano di avere della propria parzialità, l'umiltà di non porsi, ciascuno, come luogo della sintesi politica.
Questa assenza di presunzione, l'estraneità a vocazioni o corporative o totalizzanti fanno dei movimenti una strepitosa risorsa per la democrazia italiana in crisi e un'occasione irripetibile per il rinnovamento della sinistra. Per questo si resta allibiti di fronte all'imbarazzo quando non all'ostilità da casta autoreferenziale con cui parte non trascurabile della sinistra guarda a quella sollevazione di popolo che dovrebbe invece accogliere come una benedizione. Anche nel comprendere Genova vi fu ritardo, poi replicato di fronte all'imponente lotta operaia contro la cancellazione dell'Articolo 18. Ora la cosa si ripete con il cosiddetto movimento dei girotondi. Dunque, come dice il poeta, c'è del metodo in questa follia. Perché l'autocritica è sincera e profonda solo se si corregge la rotta e non vi è replica dell'errore. Chi a sinistra tradisce un incomprensibile nervosismo e insiste nel dire saccentemente che i movimenti non bastano, racconta una cosa ovvia, oppure malignamente subdola, perché scarica paradossalmente sulla società in fermento i limiti propri, vale a dire l'incapacità ormai cronica di rendersi interprete di un progetto di cambiamento profondo.
Il tema merita un approfondimento. Come mai l'assunzione diretta di responsabilità, la partecipazione disinteressata alla politica, l'ingaggio nella lotta contro la deriva reazionaria dell'Italia da parte di milioni di persone viene temuta, mentre dovrebbe esserlo sommamente il contrario, vale a dire lo stagno paludoso della passività, ignorante o rassegnata o conformista? Non è sufficiente, a me pare, ridurre tutto all'opposizione di un ceto politico che fa della propria intramontabilità un fine, a una degenerazione burocratica che impedisce alla energie vitali di irrompere e farsi strada. Tutto ciò, beninteso, esiste, ma rappresenta l'epifenomeno di qualcosa di più grande, che affonda le radici nella sconfitta della sinistra italiana, qualcosa che ha permesso alla destra più protervamente antidemocratica che si conosca in Europa di conquistare il potere e di brandirlo come una clava contro ogni articolazione sociale e istituzionale della democrazia.
Sono oggi più di ieri convinto che i limiti della prima, travagliata esperienza di governo della sinistra traggano la propria origine non tanto, o non prevalentemente, nel carattere eterogeneo della coalizione (Rosy Bindi ha difeso il servizio sanitario nazionale più di quanto non l'abbiano fatto alcuni suoi partner collocati più a sinistra nella nomenclatura).
La crisi della sinistra si è pienamente rivelata nell'assenza di un progetto alternativo di società, nel cedimento alla dominante idolatria del mercato, nella propensione a subire, piuttosto che a contrastare, l'erosione progressiva dei principi costituzionali. La vulgata delle privatizzazioni, l'attacco alla scuola pubblica, il primo viatico al federalismo concorrenziale, le improvvide incursioni contro il mondo del lavoro, le ripetute reticenze o gli ammiccamenti di fronte agli attacchi rivolti all'indipendenza della magistratura, le concessioni alla vergognosa campagna xenofoba contro l'immigrazione e, più di ogni altra cosa, l'adesione all'ipocrisia della guerra umanitaria hanno delineato una traiettoria politica che ha stravolto i connotati, l'identità di una sinistra riconoscibile, ripiegandola su un generico e vacuo progressismo, privo di radicamento sociale e di slanci ideali. Insomma, è spesso e recidivamente avvenuto che la posa della prima pietra della costruzione liberista sia stata opera di una sinistra timorosa, talvolta pentita di sé, in perenne inseguimento di una legittimazione a governare fondata sull'omologazione. Poi, su quelle fondamenta, la destra, questa destra, ha costruito un edificio di venti piani, aprendo una voragine nella quale rischia di sprofondare la democrazia di questo paese.
Se si intende sul serio rimontare la corrente occorre liberarsi dell'idea nefasta che basti impastare un po' di cinica furbizia tattica con un po' di pragmatismo politico e di basso profilo programmatico. Se si vogliono suscitare sentimenti e adesione profondi, capaci di captare consenso, voglia di militanza e impegno civile è indispensabile misurarsi con le grandi questioni aperte nel paese e nel mondo e riparlare, concretamente, di diritti universali, di uguaglianza, di democrazia partecipata, di tutela dell'ambiente, di pace. Non come opzioni generiche, utopici orizzonti, ma come valori assoluti, da perseguire con irriducibile determinazione nella concreta azione politica.
Questo profilo che definisce un'identità e delinea un quadro di alleanze dev'essere declinato con precisione.
Sul piano sociale, dove è in corso e deve essere sostenuta senza tentennamenti la lotta sindacale che intreccia '#8211; dopo anni di latenza '#8211; conflitto redistributivo, difesa ed estensione dei diritti, riforma e ampliamento del Welfare, potentamente minacciati da un'offensiva reazionaria che punta dichiaratamente ad annichilire la rappresentanza del mondo del lavoro e a restaurare un modello di relazioni sociali che si ispira al paternalismo industriale ottocentesco. Solo con una precisa scelta di campo è possibile sconfiggere Confindustria e governo e rompere la collaborazione subalterna che ha avvinto Cisl e Uil a questo sodalizio perverso.
Sul piano economico, uscendo dalla logica rigidamente monetarista che ispira il Patto di stabilità e battendosi per una politica nazionale ed europea che rilanci gli investimenti sociali, le fonti energetiche alternative, lo sviluppo selettivo dell'infrastrutturazione civile, la crescita dell'occupazione.
Sul piano della politica internazionale, rifiutando l'ingaggio nella guerra attraverso la più ampia mobilitazione di popolo e contrastando il reclutamento dell'Italia nel plotone dei paesi gregari all'ordine imperiale statunitense, fondato sull'impiego discrezionale della forza militare e sugli interessi economici delle grandi corporations.
Sul piano della politica interna, opponendosi senza incertezze, senza tregua e senza soccombere alla tentazione di impossibili compromessi, alla consorteria che sta usando il potere politico per inibire ogni dialettica democratica, per svilire il ruolo delle istituzioni rappresentative, per annullare l'indipendenza dei poteri su cui è incardinato lo Stato repubblicano, per rendere coattivamente intramontabile il proprio potere dispotico.
Sono convinto che la difesa e la piena attuazione della Costituzione nata dalla rivoluzione democratica e antifascista costituisca il terreno più fertile per la ricostruzione di un profilo programmatico della sinistra e, a un tempo, il punto più alto oggi possibile della lotta di classe in Italia.


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33

I più letti

Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL