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Il giudice Di Bella e l’allarme sui bambini che non vanno a scuola: «Dirigenti e insegnanti non devono aver paura di denunciare»

Giudice del tribunale dei minorenni di Catania, ha fondato il progetto Liberi di scegliere per salvare i ragazzi cresciuti in contesti malavitosi. E ora gira per le scuole: «Demistifico i miti mafiosi e spiego ai ragazzi che c’è sempre un’altra opportunità»

07/05/2021
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Corriere della sera

VAlentina Santarpia

«Diciottomila ragazzini tra i 10 e 16 anni che non vengono mandati a scuola solo a Catania, 80 mila in tutta la Sicilia»: si chiama dispersione scolastica, e normalmente viene segnalata alla Procura della Repubblica. Ma in territori «a rischio» malavita organizzata, insegnanti e dirigenti preferiscono tacere: «Hanno paura», denuncia il giudice Roberto Di Bella, che dopo 25 anni come presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ora si è spostato a Catania, e ha iniziato un’altra battaglia, dopo quella per allontanare i figli degli ndranghetisti dal territorio: quella nelle scuole.

«I dati sulle assenze da scuola che mi sono stati forniti, e di cui mi riservo di verificare la fonte, sono inaccettabili per un Paese civile -spiega Di Bella- Quando un bambino non va a scuola, bisogna intervenire, con misure graduali: prima prescrizioni, poi eventualmente inserimento in comunità e decadenza della responsabilità genitoriale, e segnalazione all’Inps per la revoca di tutte le indennità economiche connesse alle attività scolastiche. Interverrei anche togliendo il reddito di cittadinanza a chi non fa andare i figli a scuola. Invece spesso le segnalazioni non arrivano».

Per paura?
«Si, esatto. E non è un fenomeno nuovo, purtroppo, ma sta emergendo negli ultimi anni con grande forza. Quando ci fu la faida di San Luca, nel 2006-2007-2008, che sfociò poi nella strage di Duisburg, solo a distanza di anni, durante il processo, abbiamo scoperto che le famiglie non mandavano i figli a scuola per paura di ritorsioni. Ma nessuno lo segnalava al tribunale dei minorenni. Se invece ci fosse arrivata notizia, saremmo intervenuti. Ormai sappiamo che i primissimi segnali del disagio si colgono sempre a scuola».

Ma se si è cresciuti in un contesto con mentalità criminale, non è difficile uscirne?
«No, lo dimostra l'esperienza con Liberi di scegliere. La prima volta che ho allontanato un minorenne dalla sua famiglia, ormai molti anni fa, avevo tutti contro, nessuna risorsa ed ero sotto minaccia, come mostra bene il film Rai di due anni fa ispirato alla mia vicenda e il libro in cui racconto la mia esperienza: ora la rete creata con l’associazione Libera di don Ciotti è una realtà consolidata, abbiamo avuto ottimi risultati, oltre 80 minori allontanati, 25 nuclei familiari, moltissime donne. Abbiamo siglato un protocollo con i ministeri della Giustizia, Interno, Pari opportunità, e anche Istruzione e università: perché l’istruzione è fondamentale per offrire ai ragazzi una nuova visione della vita che potrebbero avere. Quando capiscono che esiste un modo diverso di pensare e agire, che con lo studio possono emanciparsi e scegliere la propria strada, che le ragazze possono sposare chi gli pare e non l’uomo imposto dalla famiglia per suggellare sodalizi criminali, inizia il cambiamento».

Che ruolo ha il personale scolastico in questi percorsi?
«Fondamentale. Abbiamo inviato una circolare a tutti i dirigenti a febbraio scorso invitandoli ad approfondire le tematiche legate ai contesti di criminalità organizzata, evitando che si parli di educazione alla legalità solo grazie all’iniziativa spot di qualche preside, ma che certi concetti entrino stabilmente nell’offerta formativa dei ragazzi. Bisogna demistificare il mito mafioso».

In che modo?
«Io vado nelle scuole, e racconto, fin dalle elementari, che la devianza provoca sofferenza. Se sono a Trapani parlo di Matteo Messina Denaro, a Palermo di Totò Riina, a Napoli dei Casalesi Di Lauro, a Catania di Nitto Santa Paola. E racconto loro che sono uomini braccati, che non vedono da anni i figli, o che vivono in una cella con le luci al neon sempre accese o in qualche bunker nascosto, spesso gli hanno ammazzato le persone più care, una vita d’inferno».

Ma i miti di Gomorra e simili non sono più forti?
«Non se mostri loro un altro aspetto di quei racconti: i boss non possono usare né potere né denaro, e i piccoli pusher che cercano di imitarli guadagnano 6-700 euro ma rischiando ogni giorno la galera e arricchendo altri. Bisogna toccare le corde emotive dei ragazzi, smontare l’immagine che hanno dai film, far capire loro che dietro certe scelte di vita non c’è alcuna vittoria. Il carcere è un posto terribile, glielo racconto, ti manca l’aria».

Non ha mai avuto critiche quando ha iniziato ad allontanare i bambini?
«Ho avuto contro tutti: mi dicevano che sarei finito schiacciato. E a volte ho pensato che non potevo fare ingegneria sociale: come quando una ragazzina di dodici anni, affidata alla nonna in ambito delinquenziale dopo che i genitori erano finiti in carcere, venne prelevata da casa e passò tutto il tempo del viaggio a piangere. Alla fine piangevano tutti, assistenti sociali, psicologi, poliziotti. Mi sono chiesto se stavo sbagliando e se ci eravamo spinti troppo oltre, stavo per revocare il provvedimento. Poi invece man mano la situazione è migliorata, ora lei ha quasi diciotto anni, vuole fare la psicologa per aiutare altri ragazzi in difficoltà, e ha anche scritto al padre dicendogli che non vuole fare la sua vita. Quando è tornata in Calabria ci siamo abbracciati e rinforzati a vicenda: sentirsi dire che grazie a me ha potuto vivere una vita diversa, è la ricompensa per tutto».

Che resistenze ha incontrato?
«Quando abbiamo iniziato questo orientamento giurisprudenziale abbiamo incontrato moltissime resistenze e soprattutto, sul clamore dell’aspetto mediatico, abbiamo assistito ad una contrapposizione manichea tra garantisti e giustizialisti, ci sono arrivate critiche pesanti, ci hanno accusato di deportazione di minori, confische di figli, contrapposizione tra stato etico e liberale, mi hanno dato del ladro dei bambini. Ma in realtà questi provvedimenti sono solo a tutela di ragazzi che versano in una condizione di grave prostrazione psicologica. I report dei casi sono drammatici: evocano scenari dal sindrome da guerra del Vietnam, quasi tutti hanno incubi notturni, provano un forte senso di angoscia per loro e per i familiari, sognano di doversi salvare da killer. E ci siamo imbattuti anche nella sofferenza delle madri: molte ci hanno chiesto di andare via insieme ai figli, e visto che non entravano nei programmi di protezione per pentiti, abbiamo dovuto creare percorsi di inclusione sociale, scolastica e lavorativa. Ma noi interveniamo in situazioni già patologiche, la vera prevenzione deve farla la scuola».

Come?
«I dirigenti devono fare un passo in più, il tempo pieno deve diventare una realtà anche al Sud, così che i ragazzi possano trascorrere più ore lontani dal contesto malato, e gli insegnanti dovrebbero fare corsi di formazione per affrontare le situazioni di disagio. Nelle zone di frontiera ci vogliono insegnanti preparati. La scuola ha un ruolo fondamentale per ribaltare i destini del proprio paese: aiutare i ragazzi ad emanciparsi significa dare una mano alla crescita e al progresso del Paese, che soprattutto al Sud è zavorrato dalla criminalità organizzata».

Le è già capitato di avere segnalazioni che hanno cambiato il corso degli eventi?
«Certo. Quando arrivano sono preziose. C’era un ragazzo a Reggio Calabria, con il papà in carcere, che terrorizzava tutti, picchiava i bidelli, minacciava gli insegnanti, bullizzava i compagni. Ebbe la fortuna di imbattersi in una professoressa che era anche moglie di un magistrato: la sua vita è cambiata. Un altro esempio: la ragazza di Melito Porto Salvo violentata da maggiorenni e minorenni legati a una famiglia malavitosa del posto. Fu un’insegnante, leggendo il suo tema, a capire il suo disagio, a spingerla a denunciare e a far condannare i suoi aguzzini. La scuola è fondamentale dal punto vista formativo, per la prevenzione culturale che opera, ma anche per l’occhio che ha sugli studenti. Quando noi ci siamo mossi, lo abbiamo fatto perché abbiamo colto la grande sofferenza dei ragazzi, e ci siamo accorti che non potevamo più assistere inermi alla distruzione che certe famiglie facevano dei loro figli».


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