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Il Giorno: «Serve una scuola più pratica E che appassioni gli studenti

L’INTERVISTA . IL PEDAGOGISTA GIUSEPPE BERTAGNA

14/07/2006
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Il Giorno

— ROMA —
LI CHIAMA «indulgenza plenaria» invece che esami di Stato (maturità è termine sorpassato) e dice che, sì, che sono un disastro. Ma dice pure che il disastro viene da lontano, almeno dal quarto anno del primo ciclo, ossia scuola elementare, quando i guai cominciano a farsi vedere.
Da cui: non è che si cambia formula e tutto torna a posto, il male va curato alla radice. Come? Cambiando l’intero impianto, il percorso del sistema dell’istruzione. Nome: Giuseppe Bertagna. Qualifica: direttore del Centro di ateneo per la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento dell’Università di Bergamo. A lui faceva capo la commissione che ha pensato la Riforma Moratti, ma lui sgombra subito il campo da tentazioni politiche.
«La questione non è centrodestra o centrosinista. Chi arriva abolisce le cose fatte prima, questo balletto ci distruggerà. Occorre intervenire sul sistema».

«PRENDIAMO le valutazioni Ocse. I nostri alunni di 9 anni sono tra i migliori del mondo per lettura, scrittura, matematica, logica, scienze. Il voto, da uno a 10, è 8. A 11 anni, però, questo voto sulla preparazione scende a 5 su 10. A 15 anni il livello segnalato dall’Ocse è di 4 su 10 e scivoliamo in fondo alla graduatoria. C’è qualcosa di grosso che accade tra i 9 anni, ossia fino alla terza elementare, e la fine delle scuole medie. Il problema cova fino ad esplodere con le prove finali».
Per le quali ha un’idea?
«Un cambiamento che preveda esami biennali; dia importanza al curriculum e imponga prove nazionali. Ma soprattutto bisogna intervenire sul ‘prima’, bisogna individuare perché da piccoli gli studenti sono bravissimi e poi scivolano in fondo alle classifiche. Secondo me, perché la scuola è diventata esclusivamente astrattezza, non valorizza le intelligenze. E’ disciplinarista e segmentata che non risponde alle esigenze. E così si spiegano anche i tanti abbandoni».
Con responsabilità da parte dei docenti?
«Anche, ma non solo. Gli insegnanti vengono formati su questi modelli e sui medesimi operano. La formazione va rivista per impianto, metodo e senso. E ancora: la scuola deve individuare strategie che rispondano alle personalità dei giovani. Chi abbandona non è stupido, ma non riesce a trovare un modello che gli si attagli. Per questo dico che anche le scelte didattiche vanno adattate allo stile di apprendimento. L’autonomia doveva servire a questo, rompere questi schemi».
Una scuola che parli al singolo individuo. Ma è possibile con classi di 30 persone?
«Con l’attuale struttura organizzativa no. Ma neppure nelle fabbriche oramai si ragiona in questo modo: esistono flessibilità, personalizzazione. Ci vuole un progetto a lungo periodo e, in realtà, l’abbiamo perché le norme sono ben più avanti della pratica. Per Einstein la chiarezza delle cose si esprimeva nelle formule matematiche e fisiche. Per molti di noi non è così. Van Gogh, in seminario, era stato ritenuto inadeguato. Noi dobbiamo creare una scuola che non fa questo errore ma che valorizza la singola intelligenza».
Silvia Mastrantonio


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