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Il Giornale-Salviamo i maestri per salvare la scuola

Salviamo i maestri per salvare la scuola Incominciano le scuole per i nostri ragazzi, ma un pensiero deve andare anche ai professori che sono responsabili della loro formazione. Ormai è un luogo com...

14/09/2004
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Il Giornale

Salviamo i maestri per salvare la scuola
Incominciano le scuole per i nostri ragazzi, ma un pensiero deve andare anche ai professori che sono responsabili della loro formazione. Ormai è un luogo comune, come quando si dice che non ci sono più le mezze stagioni, che la scuola sia un malandato carrozzone. Un modo di pensare che, comunque, come quello delle mezze stagioni, non è proprio campato per aria, perché decenni di esperienze negative sono diventate impietose testimonianze di disorganizzazioni di superficialità, di opportunismi,

Di tutto questo gli insegnanti non hanno responsabilità: semmai le loro organizzazioni sindacali quindi gli insegnanti impiegati in quell'attività dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Ma, nonostante questo, altre esperienze sotto gli occhi di tutti ci mostrano come il ministro della Pubblica istruzione stia lavorando bene per rimettere sui binari il "carrozzone scuola" dissestato da chi non comprende che quella macchina porta verso il futuro e che senza quella macchina è assolutamente inutile programmare e fare progetti di sviluppo per il nostro Paese.

Come un ospedale funziona bene se ha innanzitutto bravi medici, come un tribunale dà fiducia ai cittadini se ci sono magistrati competenti, così è per la scuoia. Chi sono i professori? Che tipo di giovane decide di fare l'insegnante? Quando io, ero bambino e poi adolescente il mio maestro e poi il mio professore si erano formati prima della guerra, in pieno periodo fascista. Mi ricordo un'espressione che circolava senza ironia, con molta serietà, in quei lontani tempi di studente: si diceva che il mestiere dell'insegnante è una missione. I maestri (in realtà prevalentemente donne) provenivano dai ceti sociali bassi: figli di contadini o di piccoli borghesi. Appena appena più elevata la condizione sociale dei professori che dovevano aver fatto l'università per insegnare. Prendevano il loro lavoro davvero come una missione: lo stipendio era basso, la loro preparazione generalmente molto buona, godevano del rispetto (sapevano farsi rispettare) degli studenti e dei genitori. Questo tipo di realtà e di mentalità del docente arriva più o meno inalterata agli anni Sessanta.

Io stesso decido di iscrivermi alla facoltà di lettere e filosofia sia perché mi piaceva apprendere quelle discipline, sia perché avrei insegnato volentieri. Prima che all'università, ho insegnato alle medie e ai licei: potevo anche continuare a studiare e a scrivere, avevo il rispetto dei ragazzi e dei loro genitori, ero pagato poco.

La scuola funzionava: non c'era girandola di insegnanti, c'era un rapporto molto, più organico di adesso tra i livelli di .studio e il mondo del lavoro e l'Università. Negli anni Settanta sparisce quella figura di "vecchio" professore e la scuola incomincia a diventare un marasma. Tralascio i motivi di queste trasformazioni perché, sarebbe troppo, lungo spiegarli. Comunque, ci sarà certo chi ha già compreso che siamo nei postumi sessantotteschi.

Ma, ritorniamo al nostro discorso: che tipo di giovane decide negli anni Settanta di studiare le discipline che lo porteranno a insegnare? Il politicizzato, quello che vede nella scuola una missione, ma questa volta ideologica. Non è un caso che siano insegnanti generalmente di sinistra, che i libri di testo siano faziosi per corrispondere alle loro finalità, che si avvii una sindacalizzazione capillare il cui principio fondamentale per l'inserimento del giovane nell'organico docente è stato l'abolizione del merito sostituito da una selva di punteggi che con la qualità della preparazione non avevano niente a che fare.

E oggi? I giovani che decidono di andare a insegnare,generalmente sono quelli che non hanno trovato di meglio da fare. Sono tuttavia più preparati dei loro colleghi rivoluzionari adesso in fase di riflusso e depressione, sono disillusi sul senso del loro lavoro, l'idea di svolgere una "missione" è considerata una barzelletta offensiva, sanno che lo stipendio è indecente, che non avranno né la stima dei ragazzi, né dei genitori sempre pronti a criticarli, a considerarli dei parcheggiatori, dei poveretti che non hanno saputo fare di meglio nella vita. E loro, giovani docenti, accettano tutte queste ingiustissime umiliazioni pur di portare a casa uno stipendio. Nonostante tutto, a loro, comunque, è affidato il delicatissimo compito di formare i nostri ragazzi.

E'mai possibile uno squilibrio tanto demenziale tra l'alta funzione che deve svolgere l'insegnante e l'infimo credito di cui egli gode e di cui egli stesso è il primo ad esserne consapevole?

Certo, per migliorare la scuola bisogna adeguare le leggi è la burocrazia, ma prima di tutto bisogna restituire dignità agli insegnanti, incominciando a premiare il merito e lo stipendio. I nostri maestri e professori sono giovani mediamente di buon livello quando iniziano la carriera: è necessario aiutarli e favorire il loro aggiornamento.

Stefano Zecchi"

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