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Il disegno di legge per l'autogoverno delle scuole

di Franco De Anna

02/09/2012
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PavoneRisorse

Confesso imbarazzo nel commentare sia il Disegno di legge di riforma degli organi di governo della scuola, sia il parere che su di esso ha fornito il CNPI.
Considerando il testo del Disegno di legge verrebbe da appezzarne un certo equilibrio e il suo essere esito di un lungo processo di mediazione e di confronto tra diverse proposte provenienti da diverse formazioni politiche.
Le proposte di merito dovrebbero essere inevitabilmente oggetto di analisi più puntuali, e dunque di più puntuali proposte di modifica e/o di convalida, di specificazione di ulteriori dettagli.
Ma anche in tal caso, pur riconoscendone la necessità (e proverò a misurarmici più avanti) l’imbarazzo al commento non cessa.
Ciò che condiziona l’approccio è la considerazione che tale proposta arriva, oggi, a colmare una assenza che si prolunga da 35 anni (dalla prima definizione degli Organi Collegiali), e dopo oltre un decennio che è iniziato con due veri e propri break point per quanto riguarda il “Sistema Nazionale di Educazione, Istruzione e formazione” costituiti dalla istituzione dell’autonomia scolastica da un lato e dalla riforma del Titolo V della Costituzione.
Tale condizionamento opera quasi costringendo a misurare il senso e l’appropriatezza di questo nuovo provvedimento, non tanto o non solo per il suo dettato; ma soprattutto nel confronto con quanto maturato in quel lungo processo di transizione istituzionale incompiuta.

Lungo tale incompiutezza l’assenza del legislatore si è accompagnata alla costruzione di una “costituzione materiale” che ha interpretato la transizione stessa attraverso “prassi” più o meno consolidate e contingenti, o applicazione di principi e criteri tradizionali, o come esito della dialettica di interessi più o meno conservativi, a fronte di condizioni di potenziale grandissima portata innovativa (i due break point segnalati per i quali non si sono attivati percorsi, regole, opportunità di break througth, di attraversamento, per realizzare l’innovazione potenziale).

Ovviamente non si è trattato della sola assenza legislativa nell’accompagnare e tradurre il processo di innovazione potenzialmente contenuto sia nell’autonomia scolastica sia in quel tentativo che potremmo chiamare (con termini impropri, ma che propongo per sintesi in prima istanza) di “federalismo scolastico” o di applicazione di quel tanto di federalismo compreso nel Titolo V Cost. al sistema di istruzione,
Sono altrettanto mancati i contributi della “cultura scolastica” e della sua organizzazione (i soggetti politici, quelli dell’associazionismo, il sindacalismo) che, con diverse rappresentazioni e “narrazioni”, hanno in genere assunto, rispetto ai due temi innovativi posizioni di cautela e salvaguardia degli assetti tradizionali spesso coniugati con dichiarazioni generali di segno opposto (a parole, per esempio, tutti sono per l’autonomia scolastica).
Ma, come ovvio, le responsabilità dell’assenza del legislatore sono le più evidenti.

Tutte le fasi storiche di transizione sono animate come noto, da una contraddizione fondamentale tra i processi reali che modificano la materialità storica e gli assetti istituzionali e formali che la vorrebbero “descrivere” e catalogare.
Il compito specifico del legislatore, specie se si auto attribuisce il ruolo “riformatore” è proprio quello di accompagnare la transizione attraverso il progressivo adeguamento degli apparati normativi, delle regole, dei “contenitori” che determinano le condizioni di operatività dell’innovazione.
Quando ciò non accada l’esito incompiuto della transizione è soprattutto il frutto dell’azione congiunta degli apparati tradizionali (la Pubblica Amministrazione nel nostro caso) che sarebbero altrimenti sottoposti ad un processo di decostruzione, e della rappresentazione di interessi (prima di ogni altro delle persone che lavorano nel sistema) che non trovando diverse rappresentazioni delle proprie convenienze rifluiscono sulle certezze passate (molto sindacalismo scolastico ha così reagito lungo quella che abbiamo indicato come transizione incompiuta).

Sicchè, questo è il senso di una esitazione al commento, questa iniziativa ritardata del legislatore si situa in una situazione reale che è il frutto odierno di tale incompiuta. Si misura cioè, al di là del dettato specifico di nuove norme, con gli interrogativi e con un contesto segnati da una fase di “disillusione” rispetto alle speranze di mutamento disegnate un decennio fa.

Gli irrisolti fanno riferimento a questioni nodali.

 

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