Il capitale umano
Ferruccio De Bortoli
Il capitale
Umano
di Ferruccio de Bortoli
Le idee di Draghi, in particolare sulle grandi questioni economiche, sono note. Finora però le ha sempre espresse in assenza di gravità politica. D’ora in poi sarà diverso. Alcune proposte saranno percorribili, seppure all’interno di un perimetro di partiti al momento indefinito e perfino troppo largo. Altre meno. L’ex presidente della Bce è uomo pragmatico. Conosce la politica più di quanto non si pensi. I palazzi romani non esercitano su di lui (romano) quel fascino perverso che già trasfigurò «barbari» della Lega, aziendalisti di Forza Italia e persino assalitori con l’apriscatole. Di certo non dirà sì a scelte che avvelenano il futuro del Paese per il timore di perdere il potere. Come capo del governo italiano avrebbe un potere pari a una frazione di quello che ha già avuto nei suoi incarichi internazionali. Una garanzia.
Se Draghi riuscirà a formare l’esecutivo, baderà alla concretezza, alla serietà anche un po’ rigida, e manterrà un atteggiamento di sobrietà comunicativa. Meno male. Non andrà a caccia di like sui social network. Non sarà generoso di interviste. Consci di andare contro gli interessi di categoria, glielo auguriamo. Non dovrà aspettarsi però nessuno sconto dall’informazione. Solo così i media sono utili. Altrimenti fanno solo eco.
D raghi è già rodato, specie con la Bild e con lo Spiegel , critici e un po’ prevenuti. Del resto la frase per cui è celebre ( whatever it takes ...) fu detta una volta sola. A Londra nel 2012. Quasi en passant . L’avesse ripetuta avrebbe perso di valore. Il numero uno di una banca centrale dichiara anche senza dire. Un premier ex governatore dovrà, ovviamente, dire di più. Rispondere alle domande senza evaderle e senza contraddirsi (ormai uno sport nazionale). Quello che ha sempre fatto nelle conferenze stampa, non solo a Francoforte. Ma soprattutto dovrà far parlare gli atti di governo. Senza perdere tempo. E qui viene il difficile, aggettivo con cui il presidente incaricato ha definito (bontà sua) la situazione italiana.
Negli incontri con le forze politiche sono già emersi alcuni temi divisivi. Da quota 100 — che Matteo Salvini si ostina a considerare un successo nonostante la bocciatura della Corte dei conti — al reddito di cittadinanza, fallito nel suo proposito di promuovere il lavoro. Lo ha riconosciuto persino Luigi Di Maio. Molti bonus e sussidi del Conte bis rientrano nella categoria del «debito cattivo», quello che non piace a Draghi perché non crea sviluppo. Soprattutto i giovani «non vogliono vivere di sussidi, vogliono lavorare e accrescere le opportunità delle proprie vite». Ricordava questa frase di Draghi, tra tante altre, Alberto Orioli su Il Sole 24 Ore di ieri. Nell’uscire dall’emergenza della fine del divieto di licenziamento(il 31 marzo), non si potranno salvare tutte le aziende e i posti di lavoro. Bisognerà avere cura di non far precipitare le imprese in crisi, ma con un futuro, dalla mancanza di liquidità all’insolvenza irreversibile. Ma il denaro gettato in aziende decotte, specie se pubblico e a debito, è puro spreco. I lavoratori e le lavoratrici in difficoltà vanno tutelati puntando sulla loro formazione, rispettandone così la dignità. «Il sistema di protezione sociale — scriveva Draghi nelle Considerazioni finali del 2011, ultimo anno da governatore della Banca d’Italia — deve essere posto in grado di offrire, a chi perde definitivamente il lavoro e ne cerca attivamente un altro, un sostegno sufficiente; occorre che la sorte di chi lavora in aziende che non hanno più prospettive di mercato sia resa meno drammatica, anche per non ostacolare il fisiologico ricambio delle imprese».
Sono tante le questioni che possono dividere, specie sul versante fiscale (la flat tax , per esempio), una coalizione politicamente troppo eterogenea. Ma ce ne sono alcune — a parte ovviamente la primaria necessità di sconfiggere il virus e avviare i programmi del Next generation Eu — sulle quali non vi può essere dissenso. Le riassumiamo nella formula «il capitale umano degli italiani». E ci piacerebbe che fosse una sorta di preambolo programmatico del nuovo governo. Non solo per la doverosa attenzione ai giovani, alle donne, al loro lavoro e alla loro formazione, ma in generale per l’emergenza educativa. A tutte le età.
Scriveva ancora Draghi nelle Considerazioni finali lette il 31 maggio del 2011: «Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l’obiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente. Troppo ampi restano i divari interni al Paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo. Nell’università è desiderabile una maggiore concorrenza fra atenei, che porti a poli di eccellenza in grado di competere nel mondo; è ancora basso nel confronto internazionale il numero complessivo di laureati». Dieci anni dopo, secondo i dati Istat, siamo agli ultimi posti in Europa per livello di istruzione. La quota di popolazione con titolo di studio terziario è del 19,6 per cento, contro il 33,2 per cento della media europea. «Oggi — aggiungeva Draghi — il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i Paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli». Dieci anni dopo, la situazione non è cambiata. Anzi. Il tasso di occupazione femminile è al 48,5 per cento. Il distacco con la media europea è aumentato. Da 11,7 punti a 13,9. E la differenza nella quota di laureate è cresciuta da 9 a 11,4 punti. Le donne pagano il prezzo più elevato alla crisi. Oggi quelle parole possono essere tradotte in atti concreti. «Quale Paese lasceremo ai nostri figli?» si chiedeva ancora Draghi facendo un bilancio dei suoi cinque anni in Banca d’Italia. «Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. Quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore». Si riferiva ovviamente a Luigi Einaudi, che non guidò mai un governo.