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I nodi che la lettera dei 600 docenti sulle competenze linguistiche degli studenti di oggi non affronta

Il commento di Francesco Sinopoli, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL.

13/02/2017
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L'Huffington Post

dal blog di Francesco Sinopoli

La lettera dei 600 docenti universitari, dal titolo Saper leggere e scrivere: una proposta contro il declino dell'italiano a scuola, denuncia il fatto che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivano male, mostrino gravi carenze linguistiche e non possiedano "le competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari".

L'autorevolezza dei firmatari ha contribuito a darle grande risonanza sui media. E tuttavia il contenuto della lettera, se non meditato e ripensato in relazione alla complessità che merita un discorso su tale argomento, rischia di aggiungersi al coro di chi indica tout court nella scuola, e solo nella scuola (è nominata già nel titolo), la causa di una insufficiente preparazione culturale dei nostri ragazzi.

La situazione della cultura italiana è da tempo sotto gli occhi di tutti. È noto che gli italiani che leggono almeno un libro all'anno - ultimi dati Istat 2016 - sono scesi al 40,5% (segno che il 59,5% non legge libri). Sono forse meno conosciuti ma ancora più preoccupanti i dati del rapporto Ocse Pisa 2015 sulle competenze alfa numeriche degli adulti in 29 Paesi, da cui emerge che ben il 70% della popolazione italiana è al di sotto del livello 3, quello a partire dal quale è possibile vivere e lavorare dignitosamente nel mondo di oggi.

Mentre la retorica della società della conoscenza insisteva sulla centralità dei luoghi del sapere nei processi di sviluppo, nel nostro paese, si manifestava una crescente regressione alfabetica in ampi strati della popolazione, una sostanziale rimozione del problema della disuguaglianza e del ruolo dell'istruzione nell'arginarla, uno spreco crescente di competenze e di professionalità.

La tendenza al neoanalfabetismo si riscontra in molti paesi civili ma da noi raggiunge il picco del 70% di cittadini dai 16 ai 65 anni: 6% di analfabeti primari, 22% di analfabeti di ritorno che perdono nel corso della vita le competenze acquisite sui banchi di scuola, 42% di analfabeti funzionali che pur sapendo decifrare un testo non ne padroneggiano il significato. Questo nuovo analfabetismo è aggravato dalla necessità di confrontarsi anche con i linguaggi digitali. Peraltro abbassa la domanda di istruzione e alimenta un circolo vizioso.

La situazione è stata più volte denunciata nei nostri convegni, in alcuni casi con la partecipazione di Tullio De Mauro che ha dedicato, accanto alla ricerca universitaria, una buona parte della sua vita alla scuola, alla didattica, a una divulgazione culturale capace di dare a tutti gli usi della parola.

Purtroppo, la lettera dei 600 non ci dice nulla di nuovo nei contenuti, ci sorprende se mai nel tono con cui si rivolge alla scuola e soprattutto alle indicazioni che vuole offrire alla scuola stessa: intanto, l'errata convinzione che gerarchizzando funzionalmente il sistema dei controlli (al vertice i docenti universitari, che controllano i docenti delle superiori, i quali controllano quelli delle medie, che controllano gli insegnanti del primo ciclo), magari mediante verifiche periodiche (tramite i test? Come per esempio l'Invalsi?), o la revisione delle indicazioni nazionali, si possa dare una soluzione al problema.

Anche noi non vogliamo l'ignoranza. La domanda da farsi allora è questa, chi porta la responsabilità dei fatti denunciati?

Secondo noi, che ci occupiamo quotidianamente di scuola, università e ricerca, la risposta è chiara: una politica ormai ventennale dell'istruzione sbagliata e depressiva fatta di illusorie riforme "epocali", tagli indiscriminati di risorse umane e finanziarie (solo negli anni 2008-2011 ben 8 miliardi di tagli e 120.000 unità di personale in meno), disinvestimento, concorsi non fatti per anni e proliferazione del precariato a danno della continuità didattica, sovraccarico di funzioni a fronte di una società delegante (immigrazione, bullismo, crisi della famiglia, degrado del senso civico, crisi economica, ecc.), una università non messa nelle condizioni di supportare adeguatamente la preparazione del corpo docente, una politica di istruzione degli adulti praticamente inesistente.

Questo dell'istruzione degli adulti è l'aspetto più clamorosamente carente nel nostro Paese, e del resto assolutamente trascurato nei provvedimenti più recenti. Non solo. Il documento che fu elaborato proprio sotto la direzione di Tullio De Mauro da una commissione insediata dai ministri Carrozza e Giovannini dopo la pubblicazione dei dati Ocse per costruire in Italia un coerente sistema di educazione degli adulti, è stato messo subito da parte dal governo Renzi.

Eppure persino l'Economist (il settimanale considerato la Bibbia del liberalismo anglosassone) in un numero di inizio 2017 ha lanciato il progetto di finanziare con risorse pubbliche e a livello universale la formazione permanente, la lifelong learning, considerando, finalmente, l'istruzione quale bene comune, che utilitaristicamente ha perfino straordinari ritorni sul piano economico.

Formare tutti e a tutte le età nell'era delle sfide della tecnologia avanzata, sostiene l'Economist, non può più essere né una scelta volontaria, né una necessità dettata esclusivamente dalle singole aziende. È un imperativo sociale, politico, culturale. Inoltre, come afferma da tempo il professor Ivano Dionigi, ex rettore dell'università di Bologna, si è dimostrata una scelta sbagliata, dal punto di vista dell'apprendimento della lingua italiana e della sua padronanza, l'aver reso le lingue classiche, come il greco e il latino non più obbligatorie, considerandole lingue morte.

Perché sbagliata? Perché esse costringono a conoscere le regole linguistiche e a non poterne fare a meno, quando si usano. Ciò che rende le nuove generazioni differenti rispetto alle precedenti è il cosiddetto multitasking, ovvero la possibilità di utilizzare, nello stesso tempo e nello stesso luogo, una pluralità di strumenti tecnologici.

La lingua utilizzata da questi strumenti segue da più di un decennio una sorta di "convenzione anglosassone", con abbondante taglio delle regole grammaticali, ortografiche e sintattiche, e considera la ricchezza del vocabolario una zavorra piuttosto che una straordinaria opportunità, per il pensiero, e per la scrittura.

Il pedagogista americano Howard Gardner ne ha diffusamente parlato, e con allarme, in un libro pubblicato anche in Italia, non a caso dal titolo "The App Generation", evidenziando soprattutto i nuovi limiti e i tanti difetti nell'uso della lingua da parte della "generazione sempre connessa". Dimenticavamo: dal 2009 agli insegnanti (e al personale Ata) non viene rinnovato il Contratto e ciò vuol dire perdita media di 220 euro di potere di acquisto.

Esiste, in Italia, una enorme questione salariale, che investe l'intero mondo della scuola, e maggiore attenzione andrebbe prestata al notevole differenziale tra il trattamento salariale del personale della scuola in Italia con l'insieme delle grandi nazioni europee. Alla scuola, come a tutto il mondo del lavoro pubblico, però, ci si rivolge sempre quando le cose vanno male (valga per tutti l'esemplare intervento dei settori pubblici nelle tragiche vicende del terremoto nel centro Italia).

E va detto che la scuola, nonostante la continua denigrazione a cui viene sottoposta, continua a far muro contro il dilagare dell'incultura seminata da una società che ormai identifica solo nel mercato il punto generatore dei valori del nostro tempo.

Ci auguriamo che un'iniziativa come questa dei seicento docenti possa contribuire ad aprire un serio dibattito pubblico su temi tanto delicati come quelli linguistici, di scrittura e di lettura. Speriamo, soprattutto, che dopo la discussione pubblica seguano atti concreti quelli per cui ci battiamo ogni giorno da anni.


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