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I ministri, l'inglese e l'ignoranza dell'italiano

di Benedetto Vertecchi

09/04/2014
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l'Unità

ALCUNE RECENTI AFFERMAZIONI DEL MINISTRO GIANNINI CIRCA GLI INDIRIZZI DI POLITICA SCOLASTICA HANNO RIPROPOSTO il tormentone dell'insegnamento dell'inglese fin dall'inizio del percorso scolastico. Dalla Moratti in poi, si direbbe che nessun obiettivo sia stato così puntualmente ribadito dai ministri che si sono succeduti nel governo della scuola. Non è chiaro se rientrasse nelle intenzioni del ministro Giannini, ma ciò che ha affermato circa la necessità di un rinnovato impegno nella direzione indicata suona come una condanna senza appello nei confronti dei ministri precedenti, che non sono stati capaci di far corrispondere alle parole azioni conseguenti. Su quest'ultimo punto si può anche essere d'accordo: tanto rumore è stato per nulla, o quasi. La questione, tuttavia, non è questa. Il fatto che un ministro dopo l'altro rilanci come nodo centrale la questione dell'inglese, assunto, insieme a un po' di materiale digitale, a segnale di un percorso di modernizzazione, è una prova della mancanza di ipotesi interpretative circa lo sviluppo non solo della scuola, ma più in generale della cultura diffusa nel Paese. A ciò si aggiungano affermazioni di contorno che appaiono quanto meno discutibili. Per cominciare, credo sia tutto da dimostrare che in altri Paesi (per esempio, la Francia), la conoscenza dell'inglese sia migliore che da noi. Se poi la questione fosse posta in termini educativi generali, e cioè non di conoscenza sic et simpliter dell'inglese, ma di crescita culturale collegata all'apprendimento di un seconda lingua, basterebbe attraversare la Manica per rendersi conto di quanto un tale intento sia lontano dall'essere conseguito nel Regno Unito. Il richiamo all'esigenza di estendere l'insegnamento dell'inglese, per di più generalmente giustificato in termini utilitari, non solo fa torto alla grande cultura che si è espressa in tale lingua, ma fa emergere in modo evidente l'assenza di un disegno strategico per ciò che comporta il sostegno alla conoscenza della lingua italiana, da troppo tempo bistrattata dalla subcultura dei mezzi di comunicazione e di quella degli apparati di potere (politici, amministrativi, economici). Dovrebbe far riflettere l'abitudine a utilizzare espressioni inglesi per indicare intenti che non ci sarebbe altro inconveniente ad esprimere in italiano che non sia una maggiore immediatezza nel comprenderli. Da troppo tempo, non solo in relazione a problemi educativi, non si parla più di cultura, non ci si chiede più quale sia il profilo desiderabile della popolazione, né quale sia il percorso attraverso il quale condurre a compimento gli intenti delle scelte compiute. Gli interventi sul sistema educativo appaiono contingenti e, per ciò che riguarda la lingua italiana, privi di strategia. E non potrebbe essere altrimenti, visto che l'educazione scolastica è ridotta a una questione organizzativa, priva di implicazioni che sollecitino interpretazioni di qualche respiro, che si proiettino nell'arco di un tempo abbastanza esteso da comprendere non solo il periodo in cui bambini e ragazzi ricevono un'educazione sequenziale, ma almeno parte del successivo percorso di vita. Nella rincorsa disordinata di suggestioni che diano l'idea della modernizzazione, la soluzione più semplice è sembrata l'utilizzazione di linguaggi di settore, meglio se di incerta comprensione, come quando espressi in una lingua straniera. Nella scuola hanno trovato espressione gli stessi simulacri comunicativi affermati a livello sociale, nei quali si combinano espedienti retorici per palati non troppo esigenti, volgarità, trasgressioni grammaticali e sintattiche e barbarismi per lo più non giustificati. Si dovrebbe compiere un'analisi parallela della deriva dell'italiano nella scuola e nella società per rilevare la concomitanza delle manifestazioni involutive che si riscontrano nella cultura dell'educazione formale e in quella che si esprime nella vita quotidiana. Si potrebbero ottenere indicazioni importanti per un programma teso ad accrescere nel complesso la cultura della popolazione. Tornare ad agitare lo stendardo dell'inglese è un modo per evitare il nodo della questione educativa. Nessuno nega che sia necessario promuovere una migliore conoscenza delle lingue straniere (e ciò vale non solo per l'inglese), ma è quanto meno stravagante non considerare prioritario in un programma di intervento educativo far riferimento a una solida conoscenza della lingua nazionale. Obiettivi specificamente educativi non possono che associarsi all'acquisizione della competenza linguistica che consente una più compiuta espressione del pensiero di ciascuno, lo scambio più efficace nelle relazioni interpersonali, la partecipazione più consapevole alla vita politica e a quella sociale. Si tratta di obiettivi che in ogni Paese sono prioritariamente collegati alla conoscenza della lingua che ha accompagnato lo sviluppo cognitivo, affettivo e sociale di ciascuno. Basterebbe osservare alcuni comportamenti culturali diffusi per rendersi conto di quanto sia necessario avviare iniziative per il potenziamento della competenza linguistica, sia dal punto di vista tecnico, sia da quello della comprensione del parlato e della produzione del linguaggio scritto. Cresce il numero di bambini e ragazzi che non sono più in grado di coordinare gli elementi percettivi e motori occorrenti per scrivere. Molti si limitano tracciare i segni del maiuscoletto, talvolta raccordandoli fra loro nel tentativo di ricreare una sorta di corsivo. Si scrive e si legge sempre meno, e ne risultano impoveriti il lessico e l'organizzazione del discorso. Qualunque insegnante potrebbe fornire esempi dei limiti che si vanno manifestando nella competenza verbale, e che hanno ricadute facilmente intuibili nelle altre aree dell'apprendimento. È a queste difficoltà che s'intende rimediare insegnando un po' più d'inglese? Perché invece non impegnarsi in un programma di sviluppo della qualità dell'uso linguistico nell'educazione formale e nell'uso sociale?


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