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I legami a rischio tra imprese e università. Il caso di Stanford

Sono problemi che non abbiamo in Italia, dove purtroppo i legami tra economia e conoscenza sono troppo deboli. E tuttavia segnalano che anche con le migliori sinergie non bisogna esagerare

20/04/2013
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Corriere della sera

Chiunque sia stato almeno una volta alla Stanford University è rimasto colpito dalla vastità del parco, dalla cura del verde e dall'atmosfera che regna nel centro pensante della Silicon Valley californiana, un'aria laboriosa e rilassata. Certo, l'ambiente è ultra competitivo, tanto che dei suoi studenti si dice abbiano la «sindrome dell'oca»: in apparenza placidi e tranquilli, sott'acqua sgambettano pur di arrivare alla meta. Fondata nel 1891 da Leland e Jane Stanford su un terreno collinoso grande cinque volte il Parco di Monza, a due passi da Apple, Google e Facebook, dotata di un campo di calcio per 80 mila spettatori, l'Università è il simbolo grandioso di quel rapporto tra accademia, impresa e finanza che ha reso grande l'innovazione americana. Di sicuro ha mantenuto le sue tradizioni, come il bacio di mezzanotte alle matricole e gli scherzi finali ai laureandi. Non è ben chiaro invece se abbia conservato la missione originaria, «promuovere il benessere pubblico» e «trovare le soluzioni per le grandi sfide del proprio tempo». Si resta infatti colpiti leggendo un articolo del New Yorker in cui il settimanale si chiede se la Stanford University non sia diventata, negli ultimi anni, una grossa macchina con l'unico scopo di fare soldi: tanti, maledetti e subito. Se non si sia smarrita la differenza di ruoli tra i professori e gli investitori. Se il triangolo scuola-azienda-finanza non abbia generato, oltre al successo, un colossale eccesso. Se infine non si sia dimenticato che un'università, prima di diventare «incubatore» per imprese, deve insegnare. Sono problemi che non abbiamo in Italia, dove purtroppo i legami tra economia e conoscenza sono troppo deboli. E tuttavia segnalano che anche con le migliori sinergie non bisogna esagerare.
Segantini E.


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