I bambini all'ultimo banco
di Carlo Verdelli
Se il governo si togliesse per un attimo la mascherina dagli occhi, vedrebbe subito l’iceberg a cui sta andando incontro. Una specie di iceberg fantasma, a cui nessuno sembra dare eccessiva importanza. Si parla della scuola, e sembra un divagare.
Dal lavoro alle imprese, dalla sanità ai diritti civili, dal debito pubblico che cresce alla competitività che cala, le emergenze lasciate in dote da una reiterata gestione irresponsabile della cosa pubblica sono esplose tutte insieme sotto la furia demolitrice del Covid. E adesso si cerca di correre ai ripari, mettendo pezze dove si può, convocando improbabili Stati generali, invece che in Parlamento, nella silvestre Villa Pamphilj in Roma, articolando piani di rinascita in 9 capitoli, 55 voci, 102 proposte, già destinati agli archivi prima ancora di essere presi sul serio in esame dalla politica. E comunque, anche nel libro dei sogni, il tema «istruzione» arranca nel comparto «Investimento in formazione e ricerca», annegato tra 6 punti di cui uno soltanto è dedicato al diritto allo studio.
Eppure l’iceberg Scuola avanza verso la nave Italia a una velocità spaventosa, nella colpevole incuranza generale. È l’unico settore per cui non è ancora stato previsto nemmeno un protocollo per la ripartenza. Otto milioni di studenti aspettano da inizio marzo una qualche prospettiva per il loro ritorno in classe.
L a didattica a distanza, lodevolmente sperimentata in questo tempo sconvolto dalla reclusione per pandemia, ha raggiunto un alunno su due, aggravando una povertà educativa che secondo l’Istat ha ormai superato i 2 milioni di minori, un quarto del totale. Forse si ricomincerà lunedì 14 settembre, ma non si sa in quanti né come, e poi bisogna ancora incastrare la data con il turno elettorale saltato per virus, visto che la quasi totalità dei seggi è ospite fissa di edifici scolastici. Se ne discuterà con le Regioni, prossimamente. In fondo siamo appena a metà giugno, c’è tutto il tempo per fare finta di risolvere il problema. Tanto ci sono le madri a garantire supplenza: se non loro, chi? Il marito torna al lavoro e la moglie, obbligata dalla necessità, resta accanto ai figli, e magari il lavoro lo perde per prima. Ma è una condanna di genere, tocca rassegnarsi, rimandando la chimera della parità a tempi più propizi.
Altrove hanno avuto chiaro da subito qual era la priorità sociale. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, ma persino in Paesi più fragili come Grecia e Portogallo, chi dalle materne e chi anche solo per concludere i cicli, hanno tentato di cucire la ferita aperta dalla pandemia mettendo per i primi i bambini. Noi stiamo facendo il contrario, e non da oggi.
Fra i 37 Stati dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, siamo con vergogna all’ultimo posto per spesa pubblica destinata all’istruzione: 6,9 % del totale (gli Usa, quasi il doppio; il Cile addirittura il triplo). Abbiamo il più basso tasso di laureati d’Europa (dopo la Romania) e uno dei più alti di abbandono scolastico (un milione in 10 anni). Record negativo anche per gli stipendi dei docenti, gli «artigiani delle generazioni future», secondo la felice immagine di Papa Francesco: tutti abbondantemente sotto media Ocse, dalle elementari alle superiori. Se si fa la media di tutto, non suona strano che il 20 % dei nostri giovani (16-29 anni) abbia capacità di lettura considerate minime. E non è più vero che non è mai troppo tardi.
Le nostre 41 mila scuole sono in gran parte vecchie, ammalorate, concentrate in grandi plessi da oltre mille studenti (con un solo preside per tutti, una condanna più che una cattedra, e aule ingestibili da 30 alunni) invece che distribuite in piccole unità educative sul territorio. Il corpo docente (dagli impiegati ai bidelli) è intorno al milione, con 700 mila insegnanti, di cui 200 mila precari, picco storico. E il conto lo pagano un po’ tutti, a cominciare dalle categorie più esposte, più vulnerabili, con moltissimi disabili ormai privati degli indispensabili insegnanti di sostegno, per carenza di personale e di competenze.
A fine dicembre 2019 si era dimesso il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, deputato Cinquestelle e professore di Economia politica: esaminata la situazione, aveva chiesto dei fondi che non gli erano stati concessi. Allora, prima del virus, riteneva indispensabili 3 miliardi di finanziamento strutturale. Nell’ultimo decreto Rilancio, quindi post virus, alla scuola, questa scuola italiana, sono stati destinati 1 miliardo e 400 milioni, la metà di quelli per Alitalia. La metafora dell’iceberg non pare esagerata. Rileggete per favore con calma questi numeri: la loro somma è lo zero che la nostra classe dirigente, il nostro governo, le nostre istituzioni, stanno pensando di investire sul futuro degli italiani che hanno più futuro davanti. Ed è una ipoteca di cui dovranno rendere conto, senza alibi da pandemia che possa giustificare una visione così miope, una sottrazione di apprendimento e socialità a danno delle generazioni che hanno tutti i diritti di poter vivere in un’Italia attenta anche ai loro, di diritti.
I n una scuola pubblica elementare e media del centro di Roma, il Visconti, hanno formato una commissione mista tra genitori, docenti e preside, che per qualche settimana ha lavorato intensamente per studiare come riaprire a settembre rispettando distanziamento fisico e misure di sicurezza varie. La loro conclusione, affidata a un messaggio in bottiglia, è disarmante: servono più spazi e più docenti, altrimenti avremo la catastrofe di una scuola dimezzata. Il che significa dimezzare uno dei pochi baluardi contro la disparità sociale, l’ignoranza, la decadenza culturale e civile di un Paese. Da ultimi in graduatoria europea, a ultimi e dimezzati.
All’alba della nostra Repubblica, un padre della Patria come Pietro Calamandrei disse parole definitive sulla questione: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale». La scuola è più importante, anche se da Villa Pamphilj e dintorni non si direbbe .