Gli studenti non scrivono più come una volta…
di Cosimo De Nitto
Leggo l’articolo di Marco Lodoli apparso su Repubblica il 15/3/2012 “L´ita(g)liano a scuola sempre più sconosciuto“.
Se l’avesse scritto un giornalista qualsiasi che ogni tanto, a tempo perso, giusto per rispettare il contratto con l’editore, scrive qualcosa di scuola, l’avrei anche capito. Mi sarei chiesto: ebbene dov’è la notizia? e sarei andato avanti cercando di occupare la mia mente con altro di più interessante. Avrei iscritto queste note nel novero delle tante baggianate e luoghi comuni che si sprecano quando, per esempio, ci si incontra in ascensore con qualche estraneo e si sente il bisogno di dire qualcosa che superi l’imbarazzante silenzio con espressioni tipo: ha visto che tempo? non ci sono più le stagioni di una volta… ha ragione…è proprio così, pensi che a me è capitato… Poi l’ascensore arriva al piano, si ringrazia, non si finisce il discorso e ci si saluta. Agli studenti lo avrei indicato come un perfetto esempio di funzione fatica della lingua, funzione di contatto in cui le parole hanno solo l’obiettivo di stabilire un ponte e quindi più generiche, stereotipate, banali sono meglio è, tanto non hanno l’obiettivo di comunicare contenuti del pensiero. Ecco, l’articoletto sembra proprio questo, come una lamentela per la troppa neve caduta che era da tanto tempo che non accadeva, come la preoccupazione per i troppi omicidi che accadono, come lo sdegno per la presenza eccessiva di extracomunitari che rubano il lavoro a noi italiani, come la disperazione per la sconfitta della propria squadra di calcio a cui l’arbitro cornuto(?) non ha concesso il rigore, come l’indignazione per i politici, tutti i politici, corrotti ecc.
Ma questo articolo non è stato scritto né da un giornalista che scrive di tutto e di più raccogliendo le cose che si dicono al bar dello sport, né tanto meno da uno dei famosi Soloni e censori ospitati in pompa magna sulle pagine dei grandi quotidiani nazionali. Tutta gente che di scuola, diciamolo francamente, non è che se ne intenda molto.
Questo pezzo è stato scritto da Marco Lodoli, che di mestiere primario fa l’insegnante, poi è anche un bravo scrittore e giornalista e quindi di lingua e di scuola se ne intende. Ho sempre letto i suoi articoli che trovo, dal punto di vista della scrittura, piacevoli, ma ho difficoltà, come in questo caso, ad accettare che si faccia di tutta l’erba un fascio, si generalizzi troppo fino allo scadere nello stereotipo. Io diffido sempre quando sento parlare e scrivere di “giovani”, “studenti”, come se fossero tutti uguali, non avessero storie diverse, non avessero specificità e vissuti personali e culturali diversi, pur nelle loro naturali tendenze ad usare sottocodici comunicativi fortemente identitari, che li fanno riconoscere come appartenenti alla tribù. Conosce bene queste diversità chi questi giovani frequenta e osserva quotidianamente, e sa bene che il primo atteggiamento mentale da cui deve rifuggire è quello del considerarli tutti uguali, sa bene che spesso essi si nascondono dietro questa apparente e conformizzante uguaglianza, per celare difficoltà, insicurezze, vuoti, paure anche quando hanno comportamenti spavaldi, provocatori al limite della sfacciataggine e del ribellismo, o, peggio ancora, del bullismo.
La povertà linguistica, di cui la scrittura è solo parte, non è un fenomeno che trova soluzione nella lamentazione del tipo: non ci sono più i giovani di una volta, non si scrive più la lingua di una volta, i giovani non sanno più scrivere, i giovani non sanno più parlare, i giovani non sanno più pensare ecc., basta riflettere su quanto siano in aumento fenomeni come la disgrafia, disortografia, dislalia, discalculia ecc. che oggi sono studiati come vere e proprie patologie.
Il problema è molto complesso, difficile e la via per prenderlo in carico e cercare di risolverlo è quella, per esempio, che persegue il Giscel con il suo prossimo Convegno nazionale a Reggio Emilia il 12-14 aprile prossimo che ha per tema “L’italiano per capire e per studiare: educazione linguistica e oltre”.
Il problema è complesso perché riguarda la cultura che questi studenti respirano nella società, i terremoti che subiscono dalla rivoluzione tecnologica, la passività indotta che producono i mass media, i cattivi esempi linguistici di certa televisione, ma anche di tanta stampa. Tutto ciò precipita sulle spalle di una scuola spesso abbandonata a se stessa, non considerata, non “aiutata”, talvolta dileggiata e additata come inefficiente e incompetente. E qui, in questa scuola, non c’è certo il tempo per la lamentazione sull’ita(g)liano degli studenti, se non in qualche sfogo episodico ed estemporaneo durante l’intervallo per il caffè. ma occore pensare subito e positivo, anche nella consapevolezza di trovarsi quasi da soli i docenti a combattere la battaglia per dare ai giovani strumenti e competenze linguistiche che spesso non servono, perché non richieste per ciò che faranno, o meglio non faranno, nella vita lavorativa e sociale.
La maggior parte degli insegnanti ogni giorno si spacca la testa su questo problema, cerca strade nuove per capire, strategie e tecniche didattiche da sperimentare, soluzioni innovative e approcci funzionali. Se solo fossero aiutati con un po’ di aggiornamento disciplinare, con un po’ di gratificazione economica e sociale, con l’assunzione del problema da parte di tutta la società, che insieme alla scuola deve far passare il principio che saper scrivere e saper parlare non serve solo a chi farà il giornalista o lo scrittore, ma serve anche a tutti gli altri per i quali sembra “inutile”, perché non basta saper “cinguettare”, messaggiare e abitare con comodità il territorio dei social network per essere un buon cittadino, un buon lavoratore, una persona con la testa ben fatta nel terzo millennio.