Gli italiani non sanno leggere e contare. Bocciamo i politici che non pensano al futuro
di Tito Boeri
SETTE ITALIANI su dieci non sono in grado di identificare l'autore di un libro ripercorrendo col cursore una bibliografia su un supporto digitale, altrettanti non riescono a capire quale forma potrebbe assumere una scatola costruita piegando su se stesso un foglio di carta sulla base di istruzioni relativamente semplici e dettagliate. I risultati dell'indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), resa pubblica oggi, offrono un quadro molto preoccupante delle competenze tanto matematiche che linguistiche degli italiani. Su 24 paesi, siamo il fanalino di coda nelle competenze linguistiche e al penultimo posto in quelle matematiche. Il distacco è cospicuo: un 10 per cento al di sotto della media Ocse in entrambi i campi. Con il 70 per cento dei nostri connazionali che hanno competenze ritenute al di sotto del "minimo indispensabile per vivere e lavorare nel XXI Secolo". Certamente non siamo un paese di poeti e tantomeno di navigatori sul web. Molti non sanno scrivere e far di conto. Possiamo ancora sperare di abbondare di santi, ma solo perché l'indagine non fornisce alcuna informazione a riguardo.
A differenza di indagini precedenti (come Pisa o IALS), il PIAAC si rivolge a tutta la popolazione tra i 16 e i 65 anni e non solo a chi lavora. Questo permette anche di misurare lo spreco di capitale umano. Da noi è macroscopico: con un tasso di disoccupazione giovanile al 40 per cento, i punteggi dei giovani sono sistematicamente più alti di quelli del resto della popolazione e spesso in modo consistente, cosa peraltro non vera in tutti i paesi (ad esempio non è così in Norvegia, Danimarca, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti). Anche le donne offrono, in termini relativi, performance migliori che altrove. Non rivelano punteggi significativamente diversi da quelli degli uomini mentre in altri paesi si collocano al di sotto nelle competenze matematiche e talvolta anche in quelle linguistiche. I disoccupati e le persone inattive, a differenza che in altri paesi, non sono meno competenti di chi lavora. Le donne disoccupate hanno addirittura punteggi migliori sia nelle competenze matematiche che in quelle linguistiche non solo dei disoccupati di sesso maschile, ma anche di chi ha un lavoro e ha più di 55 anni. Questo ci da una speranza: riformando il nostro mercato del lavoro e riducendo la pressione fiscale che grava su chi produce possiamo rendere produttivo questo capitale umano inutilizzato di cui disponiamo.
Ma c'è molto da fare se vogliamo ridurre il divario che ci separa dagli altri paesi avanzati. Ciò che deve maggiormente preoccupare è il rischio di rimanere intrappolati in un circolo vizioso fatto di bassi livelli di istruzione e incomprensione del valore privato e sociale dell'investimento in formazione. Il capitale umano dei genitori sembra essere uno dei maggiori determinanti di quello dei figli. Fanno decisamente meglio degli altri coloro che hanno genitori che hanno titoli di studio più avanzati. E sono davvero pochi gli adulti che ricevono formazione sul posto di lavoro, nonostante l'indagine riveli che sia molto importante perché la correlazione fra scolarità e competenze è meno forte di quanto si possa pensare. Cambiando le regole di ingresso nel mercato del lavoro, dando ai contratti dei giovani prospettive di durata anziché una scadenza pressoché ineludibile, si potrebbero migliorare gli incentivi dei datori di lavoro ad offrire formazione e quelli dei dipendenti a investire in capitale umano.
Il problema di fondo alla base di questi ritardi è legato al fatto che i nostri tassi di scolarità rimangono ancora molto bassi in confronto agli standard internazionali. Tre quarti dei nostri connazionali fra i 55 e i 65 non ha completato la scuola secondaria superiore contro una media del 30 per cento negli altri paesi Ocse. La distanza dagli altri paesi avanzati nei tassi di scolarità è molto forte anche tra chi è tra i 25 e 34 anni: attorno al 30 per cento non ha un diploma di scuola secondaria contro meno del 10 per cento nella media Ocse.
Colmare questo divario nei livelli di scolarizzazione dovrebbe essere il compito di qualsiasi governo con un minimo di lungimiranza. Noi invece abbiamo abbassato di ben due punti percentuali (dal 10 all'8 per cento) la spesa per istruzione durante questa interminabile crisi, partendo da livelli di spesa che erano già inferiori a quelli di molti paesi avanzati. Spesso l'incompetenza fa vivere l'istruzione come una minaccia alle proprie posizioni di potere. E' lo stesso motivo per cui si garantisce
una cattedra a vita ai professori universitari: non si vuole che si oppongano alle assunzioni di ricercatori più bravi per tema di perdere il posto. Ma francamente non ci sentiremmo di proporre di dare uno scranno di durata illimitata ai nostri parlamentari. Quell'istituto, il senatore a vita, purtroppo esiste già e andrebbe solo abolito. Meglio punire col voto i politici che, ignorando i problemi della scuola e della formazione, si disinteressano del nostro futuro.