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Giovanni Puglisi: «Chiudere una dozzina di sedi». Ma da che pulpito viene la predica?

Puglisi, che è contemporaneamente rettore di due atenei privati, lo IULM di Milano e la Kore di Enna auspica la chiusura di una dozzina di sedi

04/03/2014
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ROARS

La soluzione è unica e impopolare: sfoltire il sistema universitario“: l’intervista rilasciata a QN dal vice-presidente della CRUI Giovanni Puglisi è di quelle che lasciano il segno. Puglisi, che è contemporaneamente rettore di due atenei privati, lo IULM di Milano e la Kore di Enna auspica la chiusura di una dozzina di sedi: «Sarebbe un bell’inizio». Eppure l’Italia è ultima in Europa come percentuale di laureati ed anche il numero di università per milione di abitanti è inferiore a quello dei nostri competitori. Francesco Giavazzi voleva chiudere tre atenei statali perché “bocciati” dalla VQR. E IULM e Kore? Verrebbero entrambe promosse? Scopritelo con noi attraverso un indagine che parte da Henry James per arrivare a Seneca e Groucho Marx.

1. Un doppio giro di vite

La qualità di un quotidiano si misura dall’affidabilità delle notizie e dalla profondità delle analisi, anche sui temi più complessi. L’università e la ricerca sono un terrreno particolarmente insidioso. Molti articoli sono inaccurati, persino riguardo a dati elementari come il numero degli atenei italiani, e quando si passa sul terreno delle analisi e delle proposte si fatica ad andare oltre al solito frullato di luoghi comuni.

Una via di uscita può essere quella di intervistare qualcuno che sia esperto del settore, perché ci lavora quotidianamente. Anzi – chi meglio di un rettore può fornire un’opinione competente ed informata? – avrà pensato Pino Di Blasio, che sul quotidiano QN ha pubblicato un’intervista a Giovanni Puglisi. E se intervistare un rettore dà effettivamente un giro di vite, Di Blasio avrà anche pensato che intervistando il rettore di due atenei, il giro di vite sarebbe stato doppio. Infatti, Giovanni Puglisi è contemporaneamente il rettore di due atenei: lo IULM di Milano e la “Kore” di Enna. Ciliegina sulla torta: Giovanni Puglisi, oltre ad essere presidente della commissione italiana per l’Unesco e della Fondazione Sicilia (già “Fondazione Banco di Sicilia”), è anche vice-presidente della CRUI, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.

Ed è effettivamente una notizia che il vice-presidente della CRUI affermi

La soluzione è unica e impopolare: sfoltire il sistema universitario

Non per niente, QN intitola: “I rettori chiedono a Renzi la rivoluzione“. Che sia una rivoluzione non c’è dubbio: un po’ come se i tacchini accorressero al pranzo di Natale. Ma l’intervista di  Puglisi rispecchia davvero le posizioni dei vertici della CRUI? Intervistato da Uninews24, il rettore dell’Università di Torino, Gianmaria Ajani, tende ad escluderlo:

esprime solo un suo parere personale. Da quando ho cominciato a frequentare la CRUI questi pareri non solo non sono mai stati approvati, ma neanche sono mai stati inseriti tra gli ordini del giorno.

Quali sono gli argomenti chiave portati da Puglisi per auspicare una sfoltita?

  • Non abbiamo bisogno di più laureati: «l’Italia non utilizza molto chi ha una formazione elevata».
  • Abbiamo troppe università: «Sì, vanno tolte di mezzo tante università nate negli ultimi 30 anni».
  • Spendiamo troppo: «È l’unico sistema per ridurre la spesa e aumentare gli investimenti».

Da qui l’auspicio di cancellare una dozzina di sedi nel nome di un meritocratico “darwinismo tra atenei”

Basterebbe chiudere una dozzina di sedi per risolvere tutto? «No, ma sarebbe un bell’inizio».
Lei sta lanciando un darwinismo tra atenei? «Sì, anche per ridare spazio al merito come chiede Renzi».

Non è dato sapere se l’intervistatore sia rimasto deluso dalle argomentazioni di Puglisi. Nessun numero e nessun confronto internazionale, ma alcuni classici ritornelli:

  • la laurea triennale è un prolungamento dei licei.
  • E quella magistrale è riservata a chi appartiene a un censo elevato o a chi ha le idee tanto chiare da scegliere un corso all’estero.
  • Che senso ha aprire due corsi di laurea a Narni Scalo? O sbandierare atenei in centri che non hanno una biblioteca, un museo, un teatro o un centro culturale.
  • Se poi si arrivasse all’abolizione del valore legale del titolo di studio, la rivoluzione sarebbe completa.
    Le università si selezionerebbero da sole, i giovani non sceglierebbero la sede più vicina a casa per restare in parcheggio tre anni, ma punterebbero sulla loro formazione.

All’abolizione del valore legale del titolo di studio viene attribuito un potere taumaturgico: basterebbe un colpo di penna per innescare comportamenti virtuosi a catena. Che questa sia una credenza ingenua persino sul piano dei raffronti internazionali è stato più volte spiegato in dettaglio, anche su questo blog. A chi fosse interessato ad andare oltre gli slogan miracolistici consigliamo le Riflessioni sull’abolizione del valore legale del titolo di studio di Andrea Stella.

Ma se volessimo muoverci sul piano dei numeri e dei raffronti internazionali, quali sarebbero i dati con cui l’Italia deve confrontarsi?

2. Troppi atenei? troppi laureati? troppa spesa?

Che in Italia ci siano troppi atenei potrebbe sembrare una verità scontata, almeno a giudicare dalle volte che è stato ripetuto anche sulle colonne dei principali quotidiani nazionali. Se però andiamo a leggere nel dettaglio, può capitare che chi chiede una sfoltita, come Francesco Giavazzi, professore alla Bocconi di Milano, non abbia ben chiaro nemmeno il numero delle università italiane. Sulle colonne del Corriere, persino una giornalista non qualsiasi come Gianna Fregonara, moglie dell’ex-premier Enrico Letta,  scrive di “oltre 400 atenei” italiani, esagerando più di quattro volte il loro numero.

Attualmente, in Italia contiamo 96 atenei: 67 atenei statali tra cui 58 università e 9 Istituti speciali (Scuola Normale di Pisa, Università per stranieri di Perugia, etc) e 29 atenei privati tra cui 11 università telematiche. Sono pochi o sono tanti rispetto agli abitanti? Nel saggio “Malata e denigrata” (Donzelli 2009) è riportato un confronto con USA, UK, Germania, Francia, Spagna e Paesi Bassi. Se si contano le università e gli altri istituti di formazione terziaria l’Italia è ultima, persino includendo nel conteggio tutte le università non statali, telematiche incluse. Se ci si limita alle sole università, l’Italia è superata da USA, UK e Spagna e si colloca poco sopra Germania e Francia.

Insomma quello ad alcuni esperti ed opinionisti sembra un numero esorbitante, è in realtà per nulla esagerato rispetto ad alcuni paesi con cui amiamo confrontarci dal punto di vista della formazione universitaria.

Forse il problema sono i nostri giovani che insistono ad inseguire un inutile “pezzo di carta”. Troppi grilli per la testa. Come dice Puglisi, in Italia non c’è molto spazio per i lavoratori con una formazione elevata. Forse che le nostre università sfornano troppi laureati? Proviamo a vedere cosa dice l’OCSE nell’edizione 2013 del suo rapporto Education at a Glance.

Se consideriamo la fascia di età 25-34 anni, che è quella più giovane considerata nelle statistiche OCSE, risulta che l’Italia è ultima in Europa per percentuale di laureati. Nella classifica generale, con una percentuale pari al 21% contro una media OCSE del 38%, siamo 34-esimi su 37 nazioni, seguiti solo da Turchia, Brasile e Cina.

Come percentuale di laureati siamo ultimi in Europa. Ciò nonostante il sistema produttivo fatica ad assorbire i giovani laureati i quali, però, trovano sempre più frequentemente impiego all’estero, come documentato da un’inchiesta dell’Espresso dal titolo eloquente, Fermate i laureati, Siamo sicuri che la soluzione sia quella di adeguare la formazione universitaria ad un sistema produttivo arretrato che non sa che farsene della formazione avanzata? Quali sono le prospettive di crescita e di benessere di una nazione che lotta per l’ultimo posto nelle statistiche OCSE dei laureati?

Le statistiche OCSE sono utili anche per farci un’idea di quali margini ci siano per ridurre la spesa. Ebbene, come spesa rapportata al PIL l’Italia è 32-esima su 37 nazioni con un valore inferiore al 63% della media OCSE. Le uniche due nazioni europee che spendono meno di noi sono l’Ungheria e la Repubblica Slovacca (fonte: Education at a Glance 2013).

Procedendo lungo questa direzione, si potrebbe mostrare che anche la media della spesa cumulativa per singolo studente risulta inferiore alla media OCSE.

Ma forse, la vera colpa è dei giovani che si ostinano a cercare l’ateneo sotto casa. Una deplorevole tendenza che può forse essere spiegata da un grafico, già pubblicato su Roars (Borse di studio: è vero che il governo Letta ha «invertito la tendenza»?), che  mette a confronto l’evoluzione temporale degli studenti universitari beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia. L’Italia è l’unica delle quattro nazioni ad avere grafici doppi a causa del fenomeno, tutto italiano, dei cosiddetti “idonei non beneficiari”, ovvero di quegli studenti che pur avendo i requisiti economici e di merito non riscono a beneficiare delle borse di studio a causa dell’insufficienza dei fondi erogati.

Studenti universitari beneficiari di borsa in Italia, Spagna, Germania e Francia, a.a. 2006/07, 2010/11 e 2011/12 a confronto.
[Fonte: MIUR, www.destatis.de, Datos y cifras del sistema universitario espanol 2012-2013, www.pleiade.education.fr]

Il confronto è impietoso: non solo le altre tre nazioni impegnano cifre assai più consistenti, ma mostrano una chiara tendenza alla crescita, mentre solo l’Italia è calata, per di più in modo consistente (-22%). Se si considera il peso delle tasse universitarie, la situazione peggiorerebbe ulteriormente, dato che l’Italia ha le tasse più alte in Europa dopo Regno Unito e Paesi Bassi.

A conclusione di questa carrellata di dati, possiamo dire che l’idea di sfoltire il sistema universitario non trova sostegno nelle statistiche internazionali. Che quello di Puglisi sia un errore prospettico, caratteristico dei “primi della classe” che, abituati  all’eccellenza, la vorrebbero imporre anche agli altri? Per rispondere, cerchiamo di capire quanto siano  “eccellenti” lo IULM di Milano e la Kore di Enna.

3. Da che pulpito viene la predica?

Quando qualcuno chiede di chiudere atenei, chiedetegli subito quali sarebbero i primi da tagliare. È un buon modo per  capire se parla tanto per parlare. Nel nostro caso, l’intervistatore non ha avuto la prontezza di chiederlo a Puglisi. L’estate scorsa, Francesco Giavazzi era stato più esplicito. Non solo aveva chiesto la chiusura di Messina, Bari e Urbino, ma aveva motivato la terna con il fatto che – a suo dire – stavano in fondo alla classifica VQR dell’ANVUR (in realtà tra le molteplici classifiche ANVUR non ve n’è una in cui gli ultimi tre atenei siano proprio quelli indicati da Giavazzi). Il riferimento all’ANVUR, non era casuale. Infatti per gli atenei commissariati è l’ANVUR che “valuta i risultati della fase di commissariamento ed esprime il proprio parere circa il mantenimento dell’accreditamento dell’università” come pure “può avanzare al Ministero proposte di federazione o fusione dell’ateneo commissariato con altri atenei o di razionalizzazione dell’offerta formativa” (DECRETO LEGISLATIVO 27 ottobre 2011 , n. 199).

Se Puglisi suggerisce al nuovo governo di sfoltire, viene da pensare che i due atenei  di cui è rettore occupino posizioni di testa nelle classifiche VQR dell’ANVUR. Inutile ricordare che su Roars abbiamo sottolineato più volte i gravi problemi metodologici che affliggono la VQR e ne rendono inaffidabili i risultati. Non meno precaria è la condizione delle classifiche ANVUR, che fin dall’inizio si sono sdoppiate, una versione nella relazione finale VQR ed un’altra per la stampa. Pur rimanendo valide tutte queste nostre riserve, proviamo per un attimo a stare al gioco dei “tagliatori di teste”:

Se adottassimo la VQR come criterio per decidere quali atenei sono maggiormente degni, come se la caverebbero i due atenei di Puglisi?

Per farlo basta consultare le Tabelle della parte prima della relazione finale ed estrare i voti degli atenei nelle Aree disciplinari di interesse per IULM e Kore. Se costruiamo i relativi istogrammi, evidenziando con delle frecce le posizioni occupate da IULM e Kore, otteniamo i seguenti grafici.

Le prestazioni non sono esaltanti. La Kore di Enna naviga a fondo classifica, spesso tra i fanalini coda (due volte penultima ed una volta terzultima). Se la cava un po’ meglio lo IULM. Tuttavia, se si esclude l’Ingegneria Civile, in tutte le altre aree si colloca sempre nella parte bassa della classifica, al di sotto cioè del voto mediano.

Queste considerazioni trovano conferma anche nele classifiche ANVUR delle “Università al top”. Lo IULM è catalogato tra le università di medie dimensioni, dove occupa una mediocre 14-esima posizione su un totale di 31 atenei.

Decisamente più desolante la posizione della Kore nella classifica delle piccole università: 24-esima su 25 atenei. A questo si aggiungono ben quattro “bollini rossi” sulle sei aree disciplinari rappresentate nell’ateneo di Enna. Avere un bollino rosso significa collocarsi nell’ultimo quarto della classifica di una certa area.

4. Giovanni Puglisi o Groucho Marx?

L’esame dei risultati ha dato un esito sorprendente. Le due università di cui Puglisi è rettore non brillano nelle classifiche VQR, ma anzi la Kore è ad un passo dall’essere la maglia nera del suo segmento dimensionale. Come mai Francesco Giavazzi non ne ha chiesto la chiusura? Solo perché è penultima e non ultima? Non sembra questo il motivo, dato che Giavazzi non ha chiesto la chiusura nemmeno dell’ultima classificata (Roma-Marconi) nella lista delle piccole università. Come mai? Forse perché sia la Marconi di Roma che la Kore di Enna sono università private. Una questione che non riguarda il taxpayer, ma solo coloro che decidono di pagarne la retta?

In realtà, è un affare che riguarda anche il taxpayer. È facile verificare che parte del Fondo di Finanziamento Ordinario finisce anche nei loro bilanci: se si esamina la tabella FFO 2012, risulta che la Kore di Enna ha ricevuto una quota del Fondo di finanziamento ordinario pari a 650.888 Euro.

Il rettore di due atenei  privati (e vice-presidente della CRUI) che suggerisce di chiudere una dozzina di atenei (statali) mentre uno dei suoi due atenei naviga nelle ultimissime posizioni delle classifiche ANVUR. Viene in mente la replica di Seneca a chi gli rimproverava l’incoerenza tra parole e azioni:

de virtute non de me loquor
parlo della virtù non di me (De vita beata – 18,1)

Ma vale la pena di scomodare Seneca? L’analogia più stringente – in tutti i sensi – è con un protagonista del cinema del XX secolo: Groucho Marx.


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